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Il potere della vulnerabilità

C’è una forza che non ha bisogno di alzare la voce per farsi sentire. Non si impone, non conquista, non domina. Eppure, quando si manifesta, lascia un segno profondo, come una traccia invisibile che resta impressa molto più a lungo di qualsiasi gesto eclatante.
Questa forza è la vulnerabilità: quello spazio interiore in cui si smette di trattenere, di controllare, di costruire maschere, e si inizia a lasciar passare.

Essere vulnerabili non significa essere fragili nel senso comune del termine. Non significa soccombere, non significa arrendersi. Significa, piuttosto, rinunciare alla corazza. Smettere di irrigidirsi nella difesa permanente. Significa avere il coraggio di stare nudi davanti alla vita, accettando la possibilità di essere toccati, colpiti, trasformati. E proprio in questa nudità, in questa esposizione, si cela una forza sorprendente: quella di chi non ha più nulla da proteggere.

Nel mondo del suono, del canto e della voce, la vulnerabilità non è un ostacolo da superare: è la soglia che permette al lavoro autentico di iniziare.
Nessun percorso vocale profondo può svilupparsi se la persona rimane contratta nella maschera della sicurezza o nella rigidità.
La Voce, intesa non solo come suono, ma come manifestazione vibrazionale dell’essere, fiorisce solo quando trova spazio per vibrare anche nella fragilità, nel non detto, nell’ imperfetto. E forse proprio qui si manifesta il paradosso più interessante: la voce autentica nasce dove il controllo finisce.

La vulnerabilità non è una qualità astratta, relegata ai libri o ai discorsi filosofici. È qualcosa di assolutamente incarnato nell’essere umani.
La si percepisce nel respiro che esita, in quel tremolio impercettibile che percorre il suono. In quel momento esatto in cui il corpo si apre senza difese, senza sapere cosa succederà. È lì che la voce diventa vera.
Quando la tensione del “riuscire a tutti costi” si allenta, quando l’ascolto di sé diventa più importante della prestazione, quando si smette di voler “cantare bene” e si inizia semplicemente a essere nella voce, qualcosa si dischiude. Non è solo un suono. È un passaggio.
Una soglia interiore che trasforma, che apre a un modo diverso di abitare il corpo, il respiro, l’espressione.

Chi lavora con la voce in modo profondo — e ancora di più chi la esplora in senso rituale, terapeutico o spirituale sa che è proprio nel momento in cui ci si lascia attraversare dal suono che si produce una risonanza vera.
Quando la voce vibra da dentro, senza filtri, senza l’obbligo di piacere o di convincere, allora smuove. Guarisce. Connette. Non lo fa perché è perfetta. Lo fa perché è viva, nuda, umana.

Nel canto armonico, questa verità si rende ancora più evidente. Non si può forzare l’emergere di una seconda voce se non si lascia andare qualcosa. Il suono armonico ha bisogno di vuoto.
Non nasce dal controllo, ma dallo spazio interno. Da una presenza morbida, da una disponibilità ad ascoltare più che a dirigere. Il suono armonico chiede che il corpo diventi cassa di risonanza del non visibile. Che accolga, che consenta.
E questo implica inevitabilmente esporsi al rischio del non sapere, del non riuscire, del non poter dominare pienamente l’esperienza. In questa apertura vulnerabile si produce l’imprevedibile: un suono che non è più solo frutto della volontà, ma accade. E proprio per questo è vero, potente, trasformatore. In quel momento, il canto cessa di essere esecuzione tecnica e diventa esperienza trascendente. Una porta attraverso cui l’essere passa, si espande, si rinnova.

Ma la vulnerabilità non riguarda solo il rapporto con sé. Ha anche una dimensione relazionale. Quando qualcuno canta o parla da uno spazio autentico, chi ascolta lo percepisce immediatamente.
Non importa la tecnica, l’intonazione, la potenza. Importa il grado di verità che passa attraverso il suono. Il pubblico, l’ascoltatore, chiunque sia presente, non cerca la perfezione: cerca il vivo, cerca il vero. Cerca l’umano. È una questione di risonanza profonda, il corpo dell’altro viene toccato non perché sente una prestazione impeccabile, ma perché riconosce una presenza reale.

Perché sente che qualcosa si muove di là della superficie. Questo vale nella performance, nella composizione, nell’improvvisazione. Vale nell’arte, nella cura, nella comunicazione più sottile.
Vale ogni volta che la voce non è usata come scudo o ornamento, ma come ponte. E così l’artista vulnerabile diventa davvero un ponte. Attraverso la sua voce, il suo corpo, il suo suono, crea uno spazio dove le emozioni possono fluire. Dove l’altro può riconoscersi, può lasciarsi toccare, può sentire che anche la propria umanità è accolta.

Anche nelle arti marziali, quello che trascende la tecnica per diventare via interiore, la vulnerabilità è fondamentale. Non si tratta di essere deboli. Né di abbassare la guardia ingenuamente.
Si tratta di smettere di irrigidirsi nella difesa. Di lasciare che il corpo senta, ascolti, risponda. chi ha integrato questa consapevolezza non combatte contro. Non forza. Non resiste.

Accoglie.
Segue.
Fluisce.

Il vero combattente non cerca lo scontro: danza con l’energia dell’altro. È vulnerabile perché è permeabile. Non un muro, ma una corrente, non un ostacolo, ma una via. Nel Tai Chi, nell’Aikido, la morbidezza vince sulla durezza. La presenza vince sull’attacco.
La capacità di ascoltare l’intenzione ancor prima che il gesto si manifesti è ciò che permette di trasformare l’azione nel suo stesso nascere. È lo stesso ascolto sottile che, nel lavoro vocale profondo, permette di cogliere le microvariazioni del respiro, dei silenzi, dei pieni e dei vuoti.

Chi canta da uno spazio di vulnerabilità non produce suoni: li lascia accadere. Chi combatte da uno spazio di vulnerabilità non colpisce: risponde, fluendo. In entrambi i casi, il corpo non è più un’armatura. È strumento, membrana sensibile, campo di presenza. E allora la vulnerabilità non è più nemica della forza. È la sua condizione più profonda.

Perché solo chi non ha più bisogno di difendersi può entrare in una relazione autentica con il mondo,
con il suono, con l’altro. Con l’attimo presente. Solo chi si espone senza maschere può incontrare davvero. Solo chi accetta di rischiare può trasformare e trasformarsi. Ed è forse proprio questo il vero potere della vulnerabilità: la possibilità, radicale e luminosa, di tornare pienamente vivi. Di essere, finalmente, senza più protezioni inutili, presenza vibrante nel mondo.

Lorenzo Pierobon 2025 ©

Arti marziali (interne) voce e canto

La voce e le arti marziali si incontrano in una zona virtuale dove l’energia, il corpo e la mente si fondono. La pratica della vocalizzazione nelle arti marziali è un esempio potente di come il suono può avere un impatto fisico e psicologico sul corpo, e di come le frequenze sonore possano essere utilizzate per migliorare non solo la tecnica, ma anche la consapevolezza e la spiritualità del praticante. Diverse discipline marziali attribuiscono un’importanza specifica alla respirazione, al suono e alla risonanza vocale come parte dell’allenamento e della performance.  In molte arti marziali orientali, come il Tai Chi e l’Aikido, si enfatizza l’importanza di connettersi con la propria energia interna, o qi. L’uso della voce, anche solo come vibrazione interna durante l’espirazione, può aiutare a radicare e a stabilizzare la mente e il corpo. Questa connessione può essere particolarmente potente quando il praticante utilizza suoni gravi o note basse, che creano una risonanza profonda e calmante. Questi suoni vengono spesso emessi durante il movimento, soprattutto nelle tecniche di spinta o nelle fasi di rilascio dell’energia.

Uno degli esempi più noti dell’uso della voce nelle arti marziali è il kiai, (気合: “grido” o “spirito combattivo”) un grido ottenuto da una forte espirazione ventrale che consente di rilasciare l’energia al momento dell’assalto. Nel kendō, ai principianti viene insegnato a gridare il nome della parte bersaglio del colpo (kote, men, dō, tsuki) per sviluppare il kiai. Questo suono, emesso con forza al culmine di un attacco o di una mossa difensiva, ha più scopi: aiuta a liberare energia, a intimidire l’avversario, e a focalizzare l’intenzione del movimento. Il kiai è una forma di “canto marziale,” una vibrazione vocale che mira a mettere in sincronia il corpo e la mente, generando uno stato di flow in cui l’intenzione e il gesto si fondono in un’unica azione. Alcuni studi suggeriscono che l’uso del kiai può effettivamente aumentare la forza fisica e la potenza del colpo grazie alla contrazione muscolare indotta dalla vibrazione sonora.

Alcune pratiche cinesi, come il Qigong e il Kung Fu, utilizzano suoni specifici per controllare la respirazione e promuovere la salute energetica del corpo. Questi suoni, noti come “i sei suoni segreti” nel Qigong, aiutano a stimolare organi interni e a migliorare la circolazione del qi. Questa pratica si basa sul principio che il corpo, come uno strumento musicale, risuona a specifiche frequenze, e che il suono giusto può favorire l’armonia interna e il rilassamento. Le vibrazioni create dai suoni vocali possono anche avere un effetto sulla muscolatura. L’azione di emettere suoni come grida o anche solo suoni ritmati può portare ad un miglior controllo della contrazione muscolare. Alcuni atleti usano il grido non solo come un modo per caricare il corpo di energia, ma anche per rendere più fluida e potente l’esecuzione di un movimento.

Gli stili interni delle arti marziali cinesi nascono dalla fusione tra pratiche meditative, influenzate dal Buddismo e dal Taoismo, e le tradizioni marziali radicate nei villaggi cinesi. Questo incontro ha dato vita a discipline in cui la ricerca dell’equilibrio, tanto fisico quanto mentale, è il fulcro della pratica, trasformando le arti marziali in un percorso di crescita personale e spirituale. L’idea centrale di queste discipline è che la vera forza risiede non nell’azione aggressiva, ma nella capacità di armonizzare corpo, mente ed energia. Gli stili interni si fondano su alcune caratteristiche fondamentali che riflettono l’unione tra tecnica marziale e ricerca meditativa:

Elasticità e coordinazione
Gli stili interni enfatizzano la flessibilità come qualità indispensabile per muovere il corpo in armonia. I piedi rappresentano la connessione con la terra, la testa con il cielo e le mani con lo spazio intermedio. Ogni gesto diventa un ponte tra questi elementi, creando un’unità armoniosa.

Gesti lenti e consapevoli
La lentezza dei movimenti è il segreto per costruire l’unità tra corpo e spirito. Gesti deliberati e precisi educano il praticante a percepire ogni minima tensione e a rilasciarla, portandolo a un controllo sempre maggiore del proprio corpo e della propria energia.

Rilassamento  come forma di connessione alla forza vitale
L’abbandono delle tensioni muscolari è essenziale per permettere ai fluidi corporei e al respiro di scorrere liberamente. Questo rilassamento non è sinonimo di debolezza, ma di forza flessibile, capace di adattarsi e di fluire liberamente senza ostacoli.

Immobilità e il principio del Wu Wei
La pratica della quiete, anche nel movimento, permette di raggiungere lo stato di wu wei, ovvero il “agire senza forzare” (il non agire). Questo concetto taoista suggerisce che l’azione più efficace nasce dalla totale assenza di resistenza mentale o fisica, permettendo al corpo di rispondere spontaneamente e in modo naturale agli stimoli esterni.

Alternanza di pieno e vuoto
Il praticante degli stili interni impara a giocare con l’equilibrio tra pieno (durezza ed esplosività) e vuoto (distensione e rilassamento). Questa alternanza è ciò che rende una tecnica fluida ed efficace, capace di neutralizzare l’avversario senza uno sforzo eccessivo.

Presenza  come allenamento dell’intenzione
Il lavoro sull’intenzione è fondamentale. L’energia segue il pensiero, e attraverso la presenza  il praticante coltiva il corpo e lo spirito, sviluppando un controllo continuo e totale del proprio essere.

I praticanti di queste discipline cercano un controllo completo del corpo, sviluppando la capacità di passare da uno stato all’altro con leggerezza e consapevolezza. Quando un attacco viene sferrato, essi lo neutralizzano attraverso una contrazione controllata dell’energia interna (qi), per poi rilasciarla in maniera esplosiva al momento opportuno. Questo processo non è solo fisico, ma anche mentale: richiede calma e una profonda connessione con il proprio centro. In un mondo sempre più frenetico, la filosofia degli stili interni offre una via per coltivare l’equilibrio e la consapevolezza. La loro pratica non è solo utile per la difesa personale, ma anche per il benessere psicofisico, poiché insegna a muoversi con intenzione, a respirare profondamente e a rispondere agli eventi con flessibilità. Questa saggezza, ereditata dai villaggi e monasteri cinesi, rimane oggi più che mai un potente strumento per affrontare le sfide quotidiane con serenità e forza interiore.

Nella mia personale esperienza ho riscontrato che alcuni artisti marziali, specialmente quelli che praticano arti interne, hanno sperimentato tecniche vocali come il canto armonico. Attraverso la pratica del canto armonico, l’artista marziale può esplorare la propria voce come mezzo di meditazione e di auto-espressione profonda, il che può portare ad una maggiore consapevolezza del proprio stato interno. L’uso degli armonici vocali permette una risonanza unica, che può aiutare a canalizzare meglio l’energia e a migliorare la concentrazione. La voce può anche essere uno strumento per accedere a stati alterati di coscienza. In molte arti marziali, si parla di entrare in uno “stato di flusso” o di “vuoto mentale” (chiamato mushin nel Buddismo Zen). Questa condizione mentale è simile a quella che si può sperimentare attraverso pratiche vocali come il canto armonico, il canto dei mantra o il canto vocalico dove la mente razionale si ritira e il corpo agisce in modo spontaneo e intuitivo. Attraverso la pratica della vocalizzazione, l’artista marziale può accedere a uno stato di coscienza in cui la sua risposta è immediata, intuitiva e priva di tensione.

Il canto nelle arti marziali aggiunge un livello ancora più profondo di connessione tra mente, corpo e spirito, esplorando non solo la voce come veicolo di energia, ma anche come strumento di equilibrio e centratura. Mentre suoni come il kiai sono pensati per esplosioni di potenza, il canto introduce un aspetto più meditativo e continuo, utile per il mantenimento dell’energia e per favorire la concentrazione durante l’allenamento.

Un’arte marziale come la Capoeira brasiliana, include il canto come elemento fondamentale dell’allenamento. Il canto ritmico accompagna i movimenti, contribuendo a creare un flusso armonico tra l’atleta e il ritmo musicale. Il canto permette al praticante di entrare in sintonia con il proprio corpo, rispondendo in maniera più fluida e intuitiva ai movimenti dell’avversario. Inoltre, aiuta a stabilire un ritmo interno costante, che mantiene l’energia senza sprechi. Alcuni praticanti di livello avanzato usano il canto come strumento di visualizzazione. Cantare una nota lunga e continua può aiutare a creare una “mappa mentale” dei movimenti, permettendo così di focalizzare la propria intenzione su specifiche parti del corpo o su una tecnica in particolare. L’idea è che il canto diventi un mantra che guida la mente e il corpo attraverso l’azione, rendendo il gesto più preciso e l’intenzione più focalizzata. Questo è particolarmente utile nelle arti marziali interne, dove il controllo mentale e la consapevolezza del corpo sono fondamentali. Il canto armonico, in particolare, ha un potenziale speciale nelle arti marziali, soprattutto quando si esplorano tecniche più spirituali. Pratiche come il canto difonico (in cui si producono due note contemporaneamente) permettono di creare frequenze che risuonano nel corpo e nella mente, generando uno stato di profonda consapevolezza e connessione con se stessi. Questo tipo di canto è utilizzato da alcuni artisti marziali come pratica preparatoria, un metodo per raggiungere uno stato mentale libero da distrazioni e pronto ad accogliere le tecniche da memorizzare.

Alcuni maestri marziali, influenzati dalle pratiche zen e taoiste, vedono il canto come un’estensione naturale dell’arte marziale. Proprio come ogni colpo o movimento deve essere eseguito con intenzione, anche il canto è un mezzo per esprimere il proprio potere interiore e armonizzare l’energia. L’idea è che la voce rappresenti una forma di “respiro sonoro”, che, se allineato con il corpo, può intensificare l’efficacia della pratica e persino amplificare l’intento di ogni gesto. Il canto diventa così un’espressione sonora del movimento, una “scia vibrante” che lascia un’impronta di sé anche dopo l’esecuzione della tecnica. La sinergia tra canto e arti marziali va oltre l’uso della voce come semplice espediente tecnico. Il canto diventa una forma di meditazione in movimento, che permette al praticante di entrare in una dimensione intima e spirituale, amplificando la connessione tra corpo e spirito. Questa fusione tra canto e arte marziale non è solo una strategia di allenamento, ma un cammino per raggiungere un equilibrio profondo.

Lorenzo Pierobon 2024 ©