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Il Calice. Offerta e trasformazione

Ci sono forme che abitano l’inconscio collettivo come se fossero strutture archetipiche. Il calice è una di queste. Non è solo un oggetto, non è nemmeno soltanto un simbolo: è un contenitore di energie, una figura viva che attraversa miti, riti, e visioni. È un grembo, ma anche un tempio. È il luogo in cui la materia si trasforma e lo spirito si manifesta. Chi lavora con il suono e con la  voce, chi ha esplorato il corpo come luogo di coscienza, lo sa: ci sono momenti in cui non siamo più noi a cantare, ma qualcosa ci attraversa. In quei momenti, il corpo stesso si fa calice.

Tutto parte da un gesto, da una postura, da una disposizione interna. Le mani che si aprono a coppa, i gomiti che si divaricano come i bordi di una coppa antica, il busto che si rilassa e accoglie. Ma non è semplice anatomia: è un’architettura sacra. Il calice è forma di raccolta e di offerta. È insieme apertura e contenimento. È la soglia tra ciò che è invisibile e ciò che si manifesta. E questo gesto — che all’inizio può sembrare solo fisico — in realtà è un atto interiore, una disposizione alla ricezione.

Il simbolismo del calice si ritrova ovunque: nei culti antichi della Dea, dove il vaso sacro rappresentava il grembo della Terra e il principio della vita; nei misteri greci, dove era l’utensile del mescolamento tra vino e acqua, ovvero tra spirito e corpo; nella coppa del Graal, che più di ogni altro oggetto incarna il mistero dell’incontro fra umano e divino. Ma si ritrova anche nella Kabbalah, dove la Shekinah, la presenza del divino, è spesso evocata come un calice che raccoglie la luce. È presente nei Tarocchi, nella coppa dell’Asso di Coppe che trabocca d’acqua spirituale, o nella Regina che la regge come se fosse un cuore segreto. E nell’alchimia, dove vas hermeticum è il vaso chiuso, l’alambicco in cui la materia prima si dissolve per rinascere.

Il calice è, in ogni tradizione, uno strumento di trasformazione. Ma non trasforma per reazione: trasforma per presenza. Perché è il vuoto che crea la possibilità del pieno. È la forma che accoglie il mistero. Non funziona se è pieno di sé: funziona quando è vuoto ma pronto. E in questo senso, il calice è un simbolo radicale, quasi provocatorio, in una cultura che ci spinge costantemente a riempire, a esprimere, a dire. Il calice insegna il contrario: insegna a preparare lo spazio, a creare la condizione, a ricevere ciò che non può essere forzato.

Nella mia ricerca vocale, questo archetipo ha assunto via via un ruolo centrale. Non perché io lo abbia scelto: ma perché è emerso, spontaneamente, come accade con i veri simboli. Si è fatto sentire. Prima come gesto, poi come intuizione, poi come pratica viva. La voce, quando entra in relazione con il calice, cambia natura. Non è più suono diretto, volontario. Diventa eco del vuoto, risposta di qualcosa che non può essere previsto. Il calice vocalico non produce, ma chiama. Non proietta, ma riceve e poi lascia andare.

C’è una potente analogia tra le tre fasi della pratica e le tre configurazioni del calice. Seduto, con i gomiti aperti all’altezza dell’ombelico: il calice è basso, terrestre, legato al radicamento, alla raccolta delle acque interiori. In piedi, con le mani a coppa davanti alla gola: il calice è al centro, allineato al cuore e alla gola, punto d’incrocio tra emozione e vibrazione. Infine, il calice cosmico: braccia sollevate, corpo che si fa colonna, mani che si aprono verso l’alto — il calice diventa offerta, risonatore celeste, antenna sonora. Ogni posizione corrisponde a un’attitudine dell’anima, a un diverso livello del processo trasformativo.

Ma quello che più mi affascina è come questa geometria invisibile agisca a prescindere dalla nostra volontà. Quando il corpo assume questa forma, qualcosa inizia ad accadere. Non c’è bisogno di comprendere tutto: è sufficiente sentire. Il calice è una forma che accadedentro il corpo. Ed è allora che la voce si allinea, che il suono si verticalizza, che la vibrazione si organizza in modo nuovo. Non si tratta solo di tecnica vocale: è una questione di presenza. Di disposizione rituale. Di accordatura interiore.

In molte tradizioni spirituali, il calice è anche il luogo della conoscenza indicibile. È il contenitore dell’Akasha, della memoria del mondo, di ciò che non si può afferrare con la logica. È il luogo dove la voce del mondo può depositarsi. In questo senso, il calice è strumento di ascolto prima ancora che di espressione. Ecco perché la voce che nasce dal calice ha una qualità diversa: è densa, ma non pesante. È piena, ma non invadente. Filosoficamente, il calice è una soglia. Un concetto liminale. È il punto in cui il dentro e il fuorisi incontrano senza fondersi, ma rimanendo in relazione viva. Nella voce questo si percepisce con forza: quando il suono viene generato dal calice, non è più interamente mio, né interamente dell’altro. È intersoggettivo, é comunione vibrante. Diventa ponte, trasmissione, evento sonoro condiviso, voce che si fa spazio, che non ha più bisogno di affermarsi.

Non è un caso che nelle iniziazioni antiche il calice fosse sempre presente. Si beveva da una coppa per suggellare un patto, per assumere un sapere, per essere trasformati. Ma il vero calice iniziatico non era quello esterno: era la disposizione interiore a lasciarsi svuotare. Il vino, il sangue, l’acqua sacra  erano solo simboli esteriori di un processo più profondo. Il calice rituale era lì per ricordare che l’anima, per essere riempita di luce, deve prima imparare a essere vuota.

E forse è proprio questa la lezione più potente del calice: che la voce più vera nasce da un centro vuoto. Che il suono più naturale non è quello che decidiamo, ma quello a cui  permettiamo di manifestarsi. E che il corpo, quando si fa calice, diventa luogo in cui l’invisibile può manifestarsi attraverso la vibrazione.

Chi ha vissuto un’esperienza vocale autentica lo sa. In un certo istante, inspiegabile, la voce si trasforma. Non è più solo tua. Non è più solo suono. È rivelazione. È presenza sonora del mistero. È il calice che canta.

Lorenzo Pierobon 2025 ©

Seminario: Oltre la Voce il rito del Solstizio 18-21 giugno 2026- Rapallo (GE)

Montallegro-Rapallo  18-19-20-21

nella serata di sabato  20 giugno verrà proposto un concerto rituale , nella splendida cornice del bosco superiore (aperto al pubblico esterno), dell’Harmonics Art Ensemble composto dai partecipanti al seminario più ospiti speciali.

Un bosco magico pieno di lucciole, un panorama mozzafiato, un luogo incantato; questa sarà  la cornice  dell’edizione 2024 del seminario OLTRE LA VOCE.

20ma  edizione:

Asclepeion il tempio della Voce condotto da Lorenzo Pierobon. Un’occasione per entrare in contatto profondo…

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Attrattore vocale. Il centro invisibile

Un attrattore, in fisica e matematica, è il punto o insieme verso cui un sistema evolve spontaneamente nel tempo., nonostante le sue apparenti fluttuazioni e irregolarità. Anche se il percorso può sembrare caotico o imprevedibile, il sistema resta comunque vincolato a una certa geometria, a un campo invisibile ma costante che ne determina i limiti e le possibilità. Si tratta di una struttura nascosta nel caos, un nucleo invisibile che attrae i comportamenti del sistema, anche quando questi appaiono inizialmente disordinati. Un attrattore può essere un punto, una curva, o una figura complessa a geometria frattale.

Portando questo concetto nell’ambito del suono, e più precisamente nella voce, ci troviamo di fronte a una potente metafora funzionale e percettiva. La voce, come il clima o le orbite planetarie, è un sistema dinamico. È soggetta a fluttuazioni, imprevedibilità, risonanze interne ed esterne. Eppure, anche nel canto più libero, più istintivo, sembra esserci sempre una direzione, una coerenza implicita, una forma che chiama e che possiamo definire attrattore vocale.

Un attrattore vocale è una configurazione vibratoria, acustica, simbolica, archetipica verso cui la voce tende naturalmente, nel tempo, attraverso la ripetizione e l’ascolto. È un centro attorno a cui gravita la risonanza, un punto di richiamo che si costruisce nel tempo grazie all’esperienza, all’intenzione, alla familiarità e al dialogo sonoro tra corpo, mente ed emozione.

Non è una nota fissa, non è un timbro definito, ma una qualità risonante. Può manifestarsi come:

  • una frequenza fondamentale ricorrente
  • un registro vocale enfatizzato
  • un’area del corpo particolarmente coinvolta
  • una dinamica di emissione (mormorio, espansione, intensità modulata)
  • una configurazione armonica che torna spontaneamente.
  • Un pattern ritmico (esperienza di gruppo)
  • Un “cluster” sonoro (esperienza di gruppo)

L’attrattore vocale non è statico, ha una coerenza interna, un’identità riconoscibile. È come il centro di un mandala vocale: puoi esplorare le periferie, ma se ascolti bene, sai sempre dove tornare.

Nel canto improvvisato, specialmente in contesti sperimentali e non strutturati, l’attrattore vocale svolge una funzione essenziale. La voce si muove nello spazio: esplora, devia, accelera, frena. Ma la presenza di un attrattore vocale consente a questa esplorazione di non perdersi di non diventare dispersiva o casuale. La voce può allontanarsi molto, ma poi torna a casa, e nel ritorno crea il senso.,

Questo vale sia per il cantante solista che in gruppo. Ma è nel gruppo che l’attrattore vocale mostra tutta la sua potenza evolutiva.

Quando più voci improvvisano insieme, ogni voce porta con sé il proprio attrattore. Ma nel tempo, spesso anche molto rapidamente, succede qualcosa: gli attrattori iniziano a dialogare, si accordano, si adattano, si fondono e danno vita a un attrattore vocale collettivo.

Le voci si cercano nello spettro armonico, si modellano a vicenda, si stabilizzano attorno a risonanze condivise. Si forma un campo vibrazionale che ha una propria intelligenza evidente.

Ed è proprio qui che possiamo parlare, in modo pienamente significativo, di intelligenza collettiva vocale.

L’intelligenza collettiva non è una somma di intelligenze individuali. È un campo emergente che si manifesta quando un gruppo di persone agisce in ascolto profondo, in presenza, in sintonia corporea ed emotiva, con un obiettivo implicito comune: in questo caso, il canto, la coerenza sonora, la risonanza condivisa, l’intenzione focalizzata.

Nel canto armonico improvvisato, questo fenomeno diventa tangibile, gli armonici di un cantante si intrecciano con quelli degli altri, le frequenze si regolano, si avvicinano, si accordano. Alcune si rinforzano, altre scompaiono. Il campo acustico inizia a risuonare come un corpo unico. Si crea un flusso che non appartiene più a nessuno in particolare, ma circola, si distribuisce, si riorganizza in tempo reale.

Questa intelligenza collettiva:

  • decide senza decidere
  • guida senza imporre
  • risponde a perturbazioni con adattamenti coerenti
  • esplora possibilità che a un singolo sono normalmente precluse

È l’esatto equivalente sonoro di uno stormo in volo, di un banco di pesci, di una rete neurale biologica. Ogni voce ascolta e agisce. Ogni gesto vocale è una proposta, un adattamento, un atto creativo. Si genera così una coscienza musicale collettiva, in cui ognuno è parte e di un insieme vivo e dinamico.

In questo quadro, l’attrattore vocale individuale o collettivo, può essere visto come il centro dinamico della presenza sonora. È ciò che mantiene la coerenza nel tempo, ciò che dà forma al flusso, anche quando il flusso si trasforma.

L’attrattore vocale: assicura la continuità dell’identità sonora individuale e di gruppo, accoglie le dissonanze come parte della forma, stabilizza il gruppo nella coerenza senza bisogno di controllo.

In questo senso, è anche uno strumento terapeutico. Aiutare una persona a riconoscere il proprio attrattore vocale significa aiutarla a sentire il proprio centro, la propria orbita naturale, la propria “firma” in vocale. Aiutare un gruppo a co-creare un attrattore collettivo significa favorire l’emergere di una coscienza vocale e una identità sonora condivisa, un organismo che canta con la voce di tutti. E qui si apre un’ulteriore dimensione: quella dei campi morfici, teorizzati dal biologo Rupert Sheldrake. Secondo questa visione, ogni sistema naturale è immerso in un campo invisibile che trasmette informazioni sotto forma di memoria. Non si tratta di una trasmissione energetica classica, ma di una risonanza morfica: le forme che si sono già manifestate hanno più probabilità di ripetersi, perché il campo “le ricorda”.

In altre parole, ogni volta che un gruppo canta, non sta solo creando un suono nuovo, sta anche attingendo a un campo di forme sonore già vissute, a una memoria invisibile che collega tutte le esperienze vocali simili. Quando si canta in cerchio, utilizzando le tecniche del canto armonico, si entra in un flusso che è anche archetipico e transpersonale.

L’attrattore vocale, in questo contesto, può essere visto come un punto di condensazione del campo morfico. Una voce che emette una frequenza ben centrata, ben ascoltata, ben radicata, può attivare una risonanza non solo nel gruppo presente, ma anche nel campo più ampio della memoria collettiva vocale. È come se chiamasse a sé tutte le voci che quella nota l’hanno già cantata, tutte le geometrie che quel suono ha già abitato. Questa è la forza dell’improvvisazione rituale: non crea dal nulla, ma ricorda attraverso il corpo. La voce diventa allora antenna, soglia, portale. Ogni suono emesso in presenza e ascolto attiva non solo una relazione nel presente, ma tesse una tela di relazioni trans-temporali.

Nell’universo, nulla è davvero casuale. Anche i sistemi più turbolenti danzano attorno a forme invisibili che li organizzano. La voce non fa eccezione, e gli attrattori possono essere riconosciuti, coltivati, modulati per manifestare una intelligenza che non appartiene a nessuno, ma si manifesta quando siamo davvero insieme, quando le voci smettono di cercare protagonismo e iniziano a cercare risonanza. L’attrattore vocale è, forse, l’eco profondo della nostra verità sonora. E cantare insieme, in ascolto, è un modo per ricordarci questa verità non solo con la mente, ma con il corpo, il respiro, la vibrazione, e la presenza viva del gruppo.

Lorenzo Pierobon 2025 ©

 

Il potere della vulnerabilità

C’è una forza che non ha bisogno di alzare la voce per farsi sentire. Non si impone, non conquista, non domina. Eppure, quando si manifesta, lascia un segno profondo, come una traccia invisibile che resta impressa molto più a lungo di qualsiasi gesto eclatante.
Questa forza è la vulnerabilità: quello spazio interiore in cui si smette di trattenere, di controllare, di costruire maschere, e si inizia a lasciar passare.

Essere vulnerabili non significa essere fragili nel senso comune del termine. Non significa soccombere, non significa arrendersi. Significa, piuttosto, rinunciare alla corazza. Smettere di irrigidirsi nella difesa permanente. Significa avere il coraggio di stare nudi davanti alla vita, accettando la possibilità di essere toccati, colpiti, trasformati. E proprio in questa nudità, in questa esposizione, si cela una forza sorprendente: quella di chi non ha più nulla da proteggere.

Nel mondo del suono, del canto e della voce, la vulnerabilità non è un ostacolo da superare: è la soglia che permette al lavoro autentico di iniziare.
Nessun percorso vocale profondo può svilupparsi se la persona rimane contratta nella maschera della sicurezza o nella rigidità.
La Voce, intesa non solo come suono, ma come manifestazione vibrazionale dell’essere, fiorisce solo quando trova spazio per vibrare anche nella fragilità, nel non detto, nell’ imperfetto. E forse proprio qui si manifesta il paradosso più interessante: la voce autentica nasce dove il controllo finisce.

La vulnerabilità non è una qualità astratta, relegata ai libri o ai discorsi filosofici. È qualcosa di assolutamente incarnato nell’essere umani.
La si percepisce nel respiro che esita, in quel tremolio impercettibile che percorre il suono. In quel momento esatto in cui il corpo si apre senza difese, senza sapere cosa succederà. È lì che la voce diventa vera.
Quando la tensione del “riuscire a tutti costi” si allenta, quando l’ascolto di sé diventa più importante della prestazione, quando si smette di voler “cantare bene” e si inizia semplicemente a essere nella voce, qualcosa si dischiude. Non è solo un suono. È un passaggio.
Una soglia interiore che trasforma, che apre a un modo diverso di abitare il corpo, il respiro, l’espressione.

Chi lavora con la voce in modo profondo — e ancora di più chi la esplora in senso rituale, terapeutico o spirituale sa che è proprio nel momento in cui ci si lascia attraversare dal suono che si produce una risonanza vera.
Quando la voce vibra da dentro, senza filtri, senza l’obbligo di piacere o di convincere, allora smuove. Guarisce. Connette. Non lo fa perché è perfetta. Lo fa perché è viva, nuda, umana.

Nel canto armonico, questa verità si rende ancora più evidente. Non si può forzare l’emergere di una seconda voce se non si lascia andare qualcosa. Il suono armonico ha bisogno di vuoto.
Non nasce dal controllo, ma dallo spazio interno. Da una presenza morbida, da una disponibilità ad ascoltare più che a dirigere. Il suono armonico chiede che il corpo diventi cassa di risonanza del non visibile. Che accolga, che consenta.
E questo implica inevitabilmente esporsi al rischio del non sapere, del non riuscire, del non poter dominare pienamente l’esperienza. In questa apertura vulnerabile si produce l’imprevedibile: un suono che non è più solo frutto della volontà, ma accade. E proprio per questo è vero, potente, trasformatore. In quel momento, il canto cessa di essere esecuzione tecnica e diventa esperienza trascendente. Una porta attraverso cui l’essere passa, si espande, si rinnova.

Ma la vulnerabilità non riguarda solo il rapporto con sé. Ha anche una dimensione relazionale. Quando qualcuno canta o parla da uno spazio autentico, chi ascolta lo percepisce immediatamente.
Non importa la tecnica, l’intonazione, la potenza. Importa il grado di verità che passa attraverso il suono. Il pubblico, l’ascoltatore, chiunque sia presente, non cerca la perfezione: cerca il vivo, cerca il vero. Cerca l’umano. È una questione di risonanza profonda, il corpo dell’altro viene toccato non perché sente una prestazione impeccabile, ma perché riconosce una presenza reale.

Perché sente che qualcosa si muove di là della superficie. Questo vale nella performance, nella composizione, nell’improvvisazione. Vale nell’arte, nella cura, nella comunicazione più sottile.
Vale ogni volta che la voce non è usata come scudo o ornamento, ma come ponte. E così l’artista vulnerabile diventa davvero un ponte. Attraverso la sua voce, il suo corpo, il suo suono, crea uno spazio dove le emozioni possono fluire. Dove l’altro può riconoscersi, può lasciarsi toccare, può sentire che anche la propria umanità è accolta.

Anche nelle arti marziali, quello che trascende la tecnica per diventare via interiore, la vulnerabilità è fondamentale. Non si tratta di essere deboli. Né di abbassare la guardia ingenuamente.
Si tratta di smettere di irrigidirsi nella difesa. Di lasciare che il corpo senta, ascolti, risponda. chi ha integrato questa consapevolezza non combatte contro. Non forza. Non resiste.

Accoglie.
Segue.
Fluisce.

Il vero combattente non cerca lo scontro: danza con l’energia dell’altro. È vulnerabile perché è permeabile. Non un muro, ma una corrente, non un ostacolo, ma una via. Nel Tai Chi, nell’Aikido, la morbidezza vince sulla durezza. La presenza vince sull’attacco.
La capacità di ascoltare l’intenzione ancor prima che il gesto si manifesti è ciò che permette di trasformare l’azione nel suo stesso nascere. È lo stesso ascolto sottile che, nel lavoro vocale profondo, permette di cogliere le microvariazioni del respiro, dei silenzi, dei pieni e dei vuoti.

Chi canta da uno spazio di vulnerabilità non produce suoni: li lascia accadere. Chi combatte da uno spazio di vulnerabilità non colpisce: risponde, fluendo. In entrambi i casi, il corpo non è più un’armatura. È strumento, membrana sensibile, campo di presenza. E allora la vulnerabilità non è più nemica della forza. È la sua condizione più profonda.

Perché solo chi non ha più bisogno di difendersi può entrare in una relazione autentica con il mondo,
con il suono, con l’altro. Con l’attimo presente. Solo chi si espone senza maschere può incontrare davvero. Solo chi accetta di rischiare può trasformare e trasformarsi. Ed è forse proprio questo il vero potere della vulnerabilità: la possibilità, radicale e luminosa, di tornare pienamente vivi. Di essere, finalmente, senza più protezioni inutili, presenza vibrante nel mondo.

Lorenzo Pierobon 2025 ©

Il Mistero della Voce 11 ottobre – Milano –

Le date: 11 ottobre – 13 dicembre 2025

                   7 febbraio – 25 aprile   2026

Un laboratorio che nasce dall’esperienza di Lorenzo Pierobon, musicoterapeuta, cantante e ricercatore della Voce, e dall’esigenza di iniziare a trasmettere una conoscenza accumulata in quasi trenta anni di ricerca e sperimentazione vocale. Gli incontri sono pensati per indagare lo strumento voce in maniera profonda, non soffermandosi esclusivamente sulla parte tecnica, ma esplorando le componenti più misteriose che conferiscono alla Voce lo status di “strumento trasformativo”. Le tecniche del canto armonico (overtones singing) ci accompagneranno in questo percorso alla scoperta della parte più nascosta e potente della voce: la componente esoterica. Tutti possono partecipare, non servono prerequisiti tecnici, in particolare è consigliato:

• A coloro che desiderano intraprendere un percorso di crescita personale e di consapevolezza

• Professionisti della relazione di aiuto (medici, psicologi, counselor, operatori olistici, insegnanti, etc).

• Artisti

• Cantanti e danzatori

• Esploratori

Gli incontri sono fruibili singolarmente, ma è fortemente consigliato il percorso completo, al termine del quale sarà rilasciato un attestato di frequenza. Per chi lo desiderasse è possibile attivare sessioni individuali di tutoring e supervisione in presenza, dove possibile, oppure online. (Gli incontri individuali, sono da considerarsi come costo a parte e saranno concordati direttamente con l’insegnante).

PROGRAMMA DETTAGLIATO in corso di definizione

Segreteria KAILASH Telefono 02 39545486 e-mail informazioni@cckailash.it

 

 

Il maestro del centro. Voce, vuoto, presenza

In un mondo che ci spinge costantemente verso l’esterno, verso la prestazione, l’apparenza e la risposta immediata, essere padroni del proprio centro non è solo una virtù: è un atto di invisibile resistenza, una forma di potere silenzioso. Essere padrone del centro non significa dominare qualcosa fuori da sé, ma radicarsi così profondamente in sé stessi da diventare inamovibili dentro, anche quando tutto si muove fuori. Questo concetto risuona in molte tradizioni: dalle arti marziali alla meditazione, dall’arte performativa al canto, dalla musica rituale al semplice stare in presenza. È un sapere antico, incarnato, e oggi più che mai necessario.

Nel budō giapponese, nel tai chi cinese, ma anche in altre discipline marziali, il centro viene identificato con l’hara o tantien, un punto energetico collocato qualche centimetro sotto l’ombelico. Questo centro è il baricentro fisico, ma anche il fulcro psichico da cui nasce ogni gesto efficace. La parola “Budo” (武道) viene comunemente tradotta come “la Via del Guerriero”, ma il significato profondo va ben oltre la semplice pratica marziale. “Bu” (武) indica l’arte del combattimento e dō (道) che significa Via, ma anche “fermare la lancia”, “Via che conduce alla pace”, cioè evitare il conflitto, una linea silenziosa che unisce le pratiche del corpo, della mente e della voce. Il maestro del Centro è, in fondo, un praticante del Budo: qualcuno che ha trasformato la disciplina marziale in un cammino di consapevolezza totale. Budo, è stato di presenza, è armonizzazione del disordine. Il vero artista marziale non si oppone, ma riceve e direziona. Non forza, ma si muove secondo la legge del minimo sforzo. Qui entra in gioco il principio taoista del Wu Wei — agire senza agire, cioè lasciar fluire l’azione come se fosse una continuazione stessa del respiro.

Il combattente centrato non cerca la vittoria, ma la presenza totale nel momento. È la mente vuota Wu Shin, la mente che non si attacca, che osserva senza interferire a permettere la risposta giusta, al momento giusto, con la giusta intensità. È pura prontezza, disponibilità totale all’evento. È lo stato in cui l’azione giusta emerge non perché è stata scelta, ma perché era l’unica possibile. Il padrone del centro non anticipa, ma è pronto. Non reagisce, ma accoglie. Non vuole vincere, ma semplicemente non viene spostato. La meditazione, in fondo, non è altro che allenare il Centro. Non si tratta di diventare immobili, ma di scoprire un’immobilità interiore, una testimonianza silenziosa da cui tutto può essere osservato senza giudizio. Anche qui entra in gioco Wu Shin: mente senza mente, stato di coscienza in cui i pensieri possono anche sorgere, ma non ci trascinano nel loro percorso. Si dissolvono come onde mentre il centro resta calmo. Meditare è non fare, non cercare, non aggiungere nulla. È Wu Wei puro.
È l’arte di lasciar essere ciò che è, senza resistere, senza inseguire. Nel corpo, il centro meditativo si percepisce spesso come peso radicato nella terra è leggerezza che si apre verso l’alto. È una colonna vuota ma vigile, che unisce terra e cielo.

Nel momento performativo, l’artista è esposto, fragile, in tensione tra controllo e abbandono. Solo chi ha un centro saldo può permettersi il rischio di lasciarsi attraversare dal gesto, dal suono, dalla Voce, dall’istante. Un attore, un performer, un cantante che non è nel proprio centro cerca di fare e spesso fa troppo. Esagera, forza, rincorre l’effetto. Ma il vero artista, il padrone del centro, non fa: lascia che accada. Il gesto emerge dal corpo come eco del sentire. La voce nasce non dalla gola, ma da uno spazio più profondo, non locale, che tiene insieme respiro, intenzione, risonanza. Questo è Wu Wei vocale: il suono che sorge senza sforzo, ma con intensità assoluta.

Il corpo in scena non è mai totalmente rilassato, ma attivo nella sua apertura. È tensione fluida, presenza costante. Chi guarda lo percepisce subito: l’artista è lì, e non è altrove. Nel canto armonico, nella vocalità sperimentale, ma anche nella musica più intuitiva, il centro non è solo un riferimento anatomico. È l’origine invisibile da cui nasce la vibrazione. Molti vocalist cercano di “cantare bene”, ma chi canta dal centro non cerca bellezza, cerca verità. E la bellezza vera arriva come conseguenza.

La voce centrata non cerca di imporsi, ma di risuonare.
È Wu Wei del suono: l’intenzione che si scioglie nella vibrazione, la volontà che lascia spazio alla frequenza. L’ascolto del corpo, della risonanza interna, degli spazi della bocca e della cassa toracica, non è un lavoro tecnico: è pratica di centratura.
Il vero cantante non spinge: lascia che il suono venga a lui. Essere maestri/e del centro oggi significa resistere alla distrazione, alla dispersione, all’eccesso di stimolo. Significa radicarsi nell’essenziale, coltivare il vuoto che permette al pieno di accadere.

In un mondo che ci vuole performanti, veloci, reattivi, il centro ci insegna la lentezza, la presenza, l’ascolto. Il centro non è un luogo, è uno stato dell’essere che si non si conquista una volta per tutte, è una pratica quotidiana, fatta di piccoli ritorni, di ascolto, di attenzione ai segni del corpo e della mente, il centro è ciò che non si muove anche quando tutto cambia. E solo chi ha incontrato questo spazio può davvero lasciarsi andare, perché non teme di perdersi.

Lorenzo Pierobon 2025 ©

Arti marziali (interne) voce e canto

La voce e le arti marziali si incontrano in una zona virtuale dove l’energia, il corpo e la mente si fondono. La pratica della vocalizzazione nelle arti marziali è un esempio potente di come il suono può avere un impatto fisico e psicologico sul corpo, e di come le frequenze sonore possano essere utilizzate per migliorare non solo la tecnica, ma anche la consapevolezza e la spiritualità del praticante. Diverse discipline marziali attribuiscono un’importanza specifica alla respirazione, al suono e alla risonanza vocale come parte dell’allenamento e della performance.  In molte arti marziali orientali, come il Tai Chi e l’Aikido, si enfatizza l’importanza di connettersi con la propria energia interna, o qi. L’uso della voce, anche solo come vibrazione interna durante l’espirazione, può aiutare a radicare e a stabilizzare la mente e il corpo. Questa connessione può essere particolarmente potente quando il praticante utilizza suoni gravi o note basse, che creano una risonanza profonda e calmante. Questi suoni vengono spesso emessi durante il movimento, soprattutto nelle tecniche di spinta o nelle fasi di rilascio dell’energia.

Uno degli esempi più noti dell’uso della voce nelle arti marziali è il kiai, (気合: “grido” o “spirito combattivo”) un grido ottenuto da una forte espirazione ventrale che consente di rilasciare l’energia al momento dell’assalto. Nel kendō, ai principianti viene insegnato a gridare il nome della parte bersaglio del colpo (kote, men, dō, tsuki) per sviluppare il kiai. Questo suono, emesso con forza al culmine di un attacco o di una mossa difensiva, ha più scopi: aiuta a liberare energia, a intimidire l’avversario, e a focalizzare l’intenzione del movimento. Il kiai è una forma di “canto marziale,” una vibrazione vocale che mira a mettere in sincronia il corpo e la mente, generando uno stato di flow in cui l’intenzione e il gesto si fondono in un’unica azione. Alcuni studi suggeriscono che l’uso del kiai può effettivamente aumentare la forza fisica e la potenza del colpo grazie alla contrazione muscolare indotta dalla vibrazione sonora.

Alcune pratiche cinesi, come il Qigong e il Kung Fu, utilizzano suoni specifici per controllare la respirazione e promuovere la salute energetica del corpo. Questi suoni, noti come “i sei suoni segreti” nel Qigong, aiutano a stimolare organi interni e a migliorare la circolazione del qi. Questa pratica si basa sul principio che il corpo, come uno strumento musicale, risuona a specifiche frequenze, e che il suono giusto può favorire l’armonia interna e il rilassamento. Le vibrazioni create dai suoni vocali possono anche avere un effetto sulla muscolatura. L’azione di emettere suoni come grida o anche solo suoni ritmati può portare ad un miglior controllo della contrazione muscolare. Alcuni atleti usano il grido non solo come un modo per caricare il corpo di energia, ma anche per rendere più fluida e potente l’esecuzione di un movimento.

Gli stili interni delle arti marziali cinesi nascono dalla fusione tra pratiche meditative, influenzate dal Buddismo e dal Taoismo, e le tradizioni marziali radicate nei villaggi cinesi. Questo incontro ha dato vita a discipline in cui la ricerca dell’equilibrio, tanto fisico quanto mentale, è il fulcro della pratica, trasformando le arti marziali in un percorso di crescita personale e spirituale. L’idea centrale di queste discipline è che la vera forza risiede non nell’azione aggressiva, ma nella capacità di armonizzare corpo, mente ed energia. Gli stili interni si fondano su alcune caratteristiche fondamentali che riflettono l’unione tra tecnica marziale e ricerca meditativa:

Elasticità e coordinazione
Gli stili interni enfatizzano la flessibilità come qualità indispensabile per muovere il corpo in armonia. I piedi rappresentano la connessione con la terra, la testa con il cielo e le mani con lo spazio intermedio. Ogni gesto diventa un ponte tra questi elementi, creando un’unità armoniosa.

Gesti lenti e consapevoli
La lentezza dei movimenti è il segreto per costruire l’unità tra corpo e spirito. Gesti deliberati e precisi educano il praticante a percepire ogni minima tensione e a rilasciarla, portandolo a un controllo sempre maggiore del proprio corpo e della propria energia.

Rilassamento  come forma di connessione alla forza vitale
L’abbandono delle tensioni muscolari è essenziale per permettere ai fluidi corporei e al respiro di scorrere liberamente. Questo rilassamento non è sinonimo di debolezza, ma di forza flessibile, capace di adattarsi e di fluire liberamente senza ostacoli.

Immobilità e il principio del Wu Wei
La pratica della quiete, anche nel movimento, permette di raggiungere lo stato di wu wei, ovvero il “agire senza forzare” (il non agire). Questo concetto taoista suggerisce che l’azione più efficace nasce dalla totale assenza di resistenza mentale o fisica, permettendo al corpo di rispondere spontaneamente e in modo naturale agli stimoli esterni.

Alternanza di pieno e vuoto
Il praticante degli stili interni impara a giocare con l’equilibrio tra pieno (durezza ed esplosività) e vuoto (distensione e rilassamento). Questa alternanza è ciò che rende una tecnica fluida ed efficace, capace di neutralizzare l’avversario senza uno sforzo eccessivo.

Presenza  come allenamento dell’intenzione
Il lavoro sull’intenzione è fondamentale. L’energia segue il pensiero, e attraverso la presenza  il praticante coltiva il corpo e lo spirito, sviluppando un controllo continuo e totale del proprio essere.

I praticanti di queste discipline cercano un controllo completo del corpo, sviluppando la capacità di passare da uno stato all’altro con leggerezza e consapevolezza. Quando un attacco viene sferrato, essi lo neutralizzano attraverso una contrazione controllata dell’energia interna (qi), per poi rilasciarla in maniera esplosiva al momento opportuno. Questo processo non è solo fisico, ma anche mentale: richiede calma e una profonda connessione con il proprio centro. In un mondo sempre più frenetico, la filosofia degli stili interni offre una via per coltivare l’equilibrio e la consapevolezza. La loro pratica non è solo utile per la difesa personale, ma anche per il benessere psicofisico, poiché insegna a muoversi con intenzione, a respirare profondamente e a rispondere agli eventi con flessibilità. Questa saggezza, ereditata dai villaggi e monasteri cinesi, rimane oggi più che mai un potente strumento per affrontare le sfide quotidiane con serenità e forza interiore.

Nella mia personale esperienza ho riscontrato che alcuni artisti marziali, specialmente quelli che praticano arti interne, hanno sperimentato tecniche vocali come il canto armonico. Attraverso la pratica del canto armonico, l’artista marziale può esplorare la propria voce come mezzo di meditazione e di auto-espressione profonda, il che può portare ad una maggiore consapevolezza del proprio stato interno. L’uso degli armonici vocali permette una risonanza unica, che può aiutare a canalizzare meglio l’energia e a migliorare la concentrazione. La voce può anche essere uno strumento per accedere a stati alterati di coscienza. In molte arti marziali, si parla di entrare in uno “stato di flusso” o di “vuoto mentale” (chiamato mushin nel Buddismo Zen). Questa condizione mentale è simile a quella che si può sperimentare attraverso pratiche vocali come il canto armonico, il canto dei mantra o il canto vocalico dove la mente razionale si ritira e il corpo agisce in modo spontaneo e intuitivo. Attraverso la pratica della vocalizzazione, l’artista marziale può accedere a uno stato di coscienza in cui la sua risposta è immediata, intuitiva e priva di tensione.

Il canto nelle arti marziali aggiunge un livello ancora più profondo di connessione tra mente, corpo e spirito, esplorando non solo la voce come veicolo di energia, ma anche come strumento di equilibrio e centratura. Mentre suoni come il kiai sono pensati per esplosioni di potenza, il canto introduce un aspetto più meditativo e continuo, utile per il mantenimento dell’energia e per favorire la concentrazione durante l’allenamento.

Un’arte marziale come la Capoeira brasiliana, include il canto come elemento fondamentale dell’allenamento. Il canto ritmico accompagna i movimenti, contribuendo a creare un flusso armonico tra l’atleta e il ritmo musicale. Il canto permette al praticante di entrare in sintonia con il proprio corpo, rispondendo in maniera più fluida e intuitiva ai movimenti dell’avversario. Inoltre, aiuta a stabilire un ritmo interno costante, che mantiene l’energia senza sprechi. Alcuni praticanti di livello avanzato usano il canto come strumento di visualizzazione. Cantare una nota lunga e continua può aiutare a creare una “mappa mentale” dei movimenti, permettendo così di focalizzare la propria intenzione su specifiche parti del corpo o su una tecnica in particolare. L’idea è che il canto diventi un mantra che guida la mente e il corpo attraverso l’azione, rendendo il gesto più preciso e l’intenzione più focalizzata. Questo è particolarmente utile nelle arti marziali interne, dove il controllo mentale e la consapevolezza del corpo sono fondamentali. Il canto armonico, in particolare, ha un potenziale speciale nelle arti marziali, soprattutto quando si esplorano tecniche più spirituali. Pratiche come il canto difonico (in cui si producono due note contemporaneamente) permettono di creare frequenze che risuonano nel corpo e nella mente, generando uno stato di profonda consapevolezza e connessione con se stessi. Questo tipo di canto è utilizzato da alcuni artisti marziali come pratica preparatoria, un metodo per raggiungere uno stato mentale libero da distrazioni e pronto ad accogliere le tecniche da memorizzare.

Alcuni maestri marziali, influenzati dalle pratiche zen e taoiste, vedono il canto come un’estensione naturale dell’arte marziale. Proprio come ogni colpo o movimento deve essere eseguito con intenzione, anche il canto è un mezzo per esprimere il proprio potere interiore e armonizzare l’energia. L’idea è che la voce rappresenti una forma di “respiro sonoro”, che, se allineato con il corpo, può intensificare l’efficacia della pratica e persino amplificare l’intento di ogni gesto. Il canto diventa così un’espressione sonora del movimento, una “scia vibrante” che lascia un’impronta di sé anche dopo l’esecuzione della tecnica. La sinergia tra canto e arti marziali va oltre l’uso della voce come semplice espediente tecnico. Il canto diventa una forma di meditazione in movimento, che permette al praticante di entrare in una dimensione intima e spirituale, amplificando la connessione tra corpo e spirito. Questa fusione tra canto e arte marziale non è solo una strategia di allenamento, ma un cammino per raggiungere un equilibrio profondo.

Lorenzo Pierobon 2024 ©

 

Lo stato di “flusso”  come  strumento  per il canto, l’improvvisazione e la creatività

Il concetto di flusso o “flow”, come introdotto da Mihaly Csikszentmihalyi, rappresenta uno stato di profondo coinvolgimento e concentrazione in un’attività, che ci trasporta in una dimensione senza tempo, in cui ogni azione scorre senza sforzo. Nel contesto del canto, dell’improvvisazione musicale e delle esperienze creative in generale, questo stato può essere uno strumento fondamentale per migliorare la performance, l’improvvisazione e alimentare la creatività. Per un cantante, è uno stato ideale che permette di esprimere la voce senza  inibizioni, senza che la mente razionale interferisca con il fluire  naturale dell’interpretazione. Molti cantanti si trovano spesso bloccati da pensieri di auto-giudizio o dall’ansia da prestazione, che possono ostacolare la naturalezza del loro canto. Il flusso, invece, permette di bypassare questo ostacolo, aiutando il cantante a “dimenticare” sé stesso e a concentrarsi unicamente sul momento presente. Ma come si raggiunge questo stato? Ci sono alcuni elementi chiave che contribuiscono a facilitare il flusso nel canto:

Equilibrio tra sfida e abilità: per entrare nel flusso, l’attività deve presentare una sfida adeguata alle proprie capacità. Se la sfida è troppo bassa, si rischia la noia; se è troppo alta, si sperimenta ansia. Nel canto, questo può tradursi nell’esecuzione di brani che richiedono una certa complessità tecnica ma che, allo stesso tempo, non siano così difficili da far sentire il cantante sopraffatto.

Attivazione della Presenza: una delle caratteristiche del flusso è la concentrazione assoluta sull’attività in corso. Nel canto, questo significa essere completamente presenti, sentire ogni nota, ogni respiro, ogni vibrazione, senza che la mente vaghi o si perda in pensieri distraenti.

Riscontro  e biofeedback immediato: la voce fornisce un feedback costante. Sentire come il suono risuona nel corpo, come le note vengono emesse, permette di monitorare continuamente la qualità della performance. Questo riscontro immediato è essenziale per mantenere il flusso. Quando un cantante entra in questo stato, la voce scorre libera, le emozioni si manifestano in modo autentico e il pubblico può percepire una connessione profonda con l’artista; questo non solo migliora la performance, ma rende il canto un’esperienza gratificante per chi lo pratica. L’improvvisazione, in particolare nel canto, è un terreno fertile in cui addentrarsi. Richiede la capacità di creare musica in tempo reale, senza la struttura rigida di un brano predefinito. Questo richiede una sincronia perfetta tra il pensiero musicale, la tecnica vocale e l’espressione emotiva, che può essere facilitata da questo stato.

Quando si improvvisa, l’obiettivo è lasciarsi trasportare dalla musica, esplorando nuovi percorsi sonori senza paura di sbagliare. Il flusso consente di superare il timore di fare errori, poiché l’attenzione è completamente focalizzata sull’evoluzione del suono in quel preciso istante. Ecco alcuni elementi che, in questo senso,  facilitano l’improvvisazione:

Libertà espressiva: l’improvvisazione richiede di mettere da parte il controllo razionale per dare spazio alla creatività. Il flusso permette al cantante di sperimentare, esplorare nuove melodie, ritmi e armonie, senza il peso delle aspettative.

Connessione emotiva: l’improvvisazione è un atto profondamente emotivo, e il flusso amplifica questa connessione. Il cantante si fonde con la musica, creando un ponte tra il sé interiore e il mondo esterno, un’esperienza che può risultare catartica e profondamente gratificante.

Ascolto attivo: per improvvisare, è essenziale essere completamente sintonizzati con ciò che accade musicalmente. Il flusso aumenta la capacità di ascoltare attentamente ogni suono e rispondere in modo spontaneo, creando un dialogo musicale fluido con altri musicisti o con la propria voce.

Oltre a migliorare la performance, questo stato interno, è uno strumento potente per facilitare esperienze creative. La creatività, che spesso richiede di uscire dai confini della logica e del pensiero strutturato, qui trova un terreno fertile: la mente si libera da blocchi e inibizioni, permettendo al processo creativo di emergere in modo spontaneo e naturale. Uno degli aspetti più affascinanti è la sua capacità di eliminare il giudizio critico, che spesso rappresenta un ostacolo per la creatività. Invece di analizzare o mettere in discussione ogni idea, le idee fluiscono liberamente, si sviluppano e si evolvono senza interruzioni. Questo stato è particolarmente utile per i musicisti, poiché permette loro di esplorare nuovi territori sonori senza essere bloccati dalla paura di fallire o di non essere all’altezza. Attivarlo non è sempre facile, ma ci sono alcune pratiche che possono aumentare le probabilità di sperimentarlo:

Tecnica: la pratica costante è fondamentale. Più un cantante o un musicista padroneggia la tecnica, più è libero di concentrarsi sull’espressione creativa senza essere distratto dagli aspetti tecnici dell’esecuzione.

Preparazione mentale: creare le giuste condizioni mentali è essenziale. Ridurre il rumore interiore, come l’auto-giudizio e i pensieri negativi, aiuta a focalizzarsi sull’attività e a mantenere la concentrazione.

Tecniche meditative: possono essere strumenti importanti per migliorare il canto, aiutando a sviluppare maggiore consapevolezza del corpo e della respirazione. Attraverso la meditazione, i cantanti possono imparare a rilassare le tensioni muscolari, a gestire l’ansia da performance e a focalizzarsi sulla corretta emissione vocale. La pratica meditativa porta a una connessione più profonda con il proprio respiro, che è fondamentale per il controllo della voce, e aiuta a entrare in uno stato di concentrazione e calma, facilitando l’espressione vocale autentica e fluida.

 

Concetto di flusso Applicato alla Terapia

Il concetto di flusso ha trovato applicazione in una vasta gamma di ambiti, dalla psicologia alle arti, dallo sport alla gestione aziendale, e non meno importante, nella terapia. In terapia può rappresentare un potente strumento per facilitare il processo di guarigione, migliorare il benessere psicofisico e aiutare le persone a riconnettersi con sé stesse. Questo stato, descritto come un’esperienza di completa immersione e presenza, può aiutare a promuovere la trasformazione interiore e la crescita personale. In terapia si verifica quando un paziente o un cliente entra in uno stato di concentrazione e coinvolgimento profondo durante una sessione. Questo stato non è limitato a una specifica forma di terapia: può manifestarsi in molteplici contesti tra cui la musicoterapia, la psicoterapia, l’arte terapia. Nel contesto terapeutico, si manifesta quando la persona è pienamente coinvolta nell’attività terapeutica, sia essa espressiva, come il canto o il disegno, sia riflessiva, come il dialogo con il terapeuta. Nel momento in cui si instaura questo stato, le resistenze iniziano ad indebolirsi, e la persona può accedere a una dimensione più profonda del proprio sé, consentendo una maggiore consapevolezza e comprensione dei propri stati emotivi, mentali e fisici. Raggiungere questo  stato  durante una sessione terapeutica, favorisce l’ instaurarsi di una serie di condizioni favorevoli e facilitanti:

Concentrazione e focalizzazione aumentate: la mente è completamente focalizzata sull’attività in corso. Questo porta a un maggiore coinvolgimento nel processo terapeutico, aiutando la persona a rimanere presente e consapevole di sé e del proprio vissuto. In terapia, la capacità di essere pienamente presenti nel momento è cruciale per riconoscere e affrontare emozioni e traumi che spesso vengono evitati o ignorati.

Riduzione dell’ansia e del giudizio: Il flow aiuta a mettere da parte il giudizio e il pensiero critico. Questo è particolarmente utile quando il timore di essere giudicati, anche da sé stessi, può ostacolare la crescita e il cambiamento. Nello stato di flusso, l’individuo è meno incline a preoccuparsi delle aspettative sociali o del giudizio esterno, il che facilita l’esplorazione emotiva e psicologica.

Autenticità emotiva: la persona è in contatto diretto con le proprie emozioni. Questo stato permette di sperimentare emozioni autentiche, senza filtri o repressioni. In molte terapie, come nella musicoterapia o nell’arte terapia, facilita l’espressione di emozioni che potrebbero essere difficili da verbalizzare. Le emozioni possono essere esplorate attraverso il suono, il movimento, la voce, il canto aiutando la persona a comprendere meglio sé stessa.

Superamento del controllo razionale: la capacità di lasciare andare il controllo razionale. Questo può essere particolarmente utile in terapie orientate all’espressione e alla creatività, dove il controllo razionale spesso limita il processo. In questo stato, il paziente può liberare il proprio potenziale creativo e emotivo, permettendo alla terapia di diventare un’esperienza profondamente trasformativa.

Accesso a nuove prospettive e intuizioni: può favorire una connessione più profonda con il sé interiore, aiutando la persona a ottenere intuizioni(insight) e nuove prospettive sui propri problemi. Nel flusso, le resistenze interiori si indeboliscono, permettendo di vedere situazioni e vissuti da angolazioni diverse, facilitando la crescita e il cambiamento.

 

Flow e Musicoterapia

La musicoterapia è uno degli ambiti in cui si manifesta in modo particolarmente evidente. Durante una sessione di musicoterapia, sia il terapeuta che il paziente possono entrare in questo stato di coscienza profondo specialmente durante momenti di improvvisazione musicale o di partecipazione attiva alla creazione del suono o di un canto. Quando il paziente entra in questo stato durante una sessione di musicoterapia:

  • Si connette profondamente con il suono e le vibrazioni, questo aiuta a regolare le emozioni e a raggiungere uno stato di equilibrio psicofisico.
  • Lascia emergere emozioni nascoste, la musica e il canto agiscono come canali che permettono di esplorare e esprimere emozioni difficili da verbalizzare.
  • Sperimenta una sincronia con il terapeuta, a collaborazione musicale in questo caso crea un legame terapeutico forte, che favorisce la fiducia e l’apertura emotiva.

Per esempio, nell’improvvisazione musicale o vocale, l’attenzione è completamente rivolta al suono e alle emozioni che esso evoca, consentendo al paziente di sperimentare una connessione profonda con il proprio mondo interiore, facilitando così non solo l’esplorazione emotiva, ma anche il rilascio di tensioni e blocchi energetici, portando a una sensazione di sollievo e liberazione.

 Flusso e terapia corporea

Nella terapia corporea, come il lavoro con il respiro, la bioenergetica, il Qi gong, si può manifestare quando il paziente entra in uno stato di consapevolezza profonda del proprio corpo. Questo può accadere, ad esempio, durante pratiche di respirazione o tecniche di rilassamento, in cui la mente si calma e l’attenzione si sposta completamente sulle sensazioni fisiche.

  • Consapevolezza del corpo: aiuta a diventare più consapevoli delle tensioni e delle emozioni bloccate nel corpo.
  • Rilascio di tensioni: quando si entra in flow, il corpo tende a rilasciare tensioni accumulate, promuovendo una sensazione di rilassamento e benessere.

In terapia corporea, permette alla persona di entrare in uno stato di sintonia con il proprio corpo, facilitando l’emergere di emozioni legate a tensioni fisiche o traumi.

 Come promuovere lo stato di flusso

Esistono alcuni fattori che possono favorire l’avvicinamento:

  1. Creare un ambiente sicuro e accogliente: il paziente deve sentirsi libero di esplorare senza paura di giudizio o critica. Un ambiente sicuro permette al cliente di lasciarsi andare e di entrare più facilmente.
  2. Stabilire obiettivi chiari: avere una chiara comprensione di ciò che si vuole ottenere nella sessione terapeutica può aiutare a focalizzare l’attenzione e a entrare più facilmente.
  3. Incoraggiare l’espressione creativa: sia che si tratti di musica, arte, movimento o canto, l’espressione creativa può essere un canale efficace per facilitare il raggiungimento di questo stato.

Il concetto di flusso applicato alla terapia apre una strada nuova e affascinante per migliorare il processo di guarigione e di crescita personale. Che si tratti di una seduta di musicoterapia, di un dialogo profondo io di un lavoro corporeo, può facilitare un’esperienza di completa immersione che permette di abbassare le difese, esplorare emozioni nascoste e trovare un senso di benessere e autenticità. In un mondo in cui spesso ci sentiamo frammentati e disconnessi, ci offre la possibilità di riconnettersi con il nostro sé più profondo, favorendo la trasformazione e il cambiamento. Coltivare il flusso richiede costanza, presenza mentale e un approccio equilibrato tra tecnica e libertà espressiva, ma una volta raggiunto, diventa una risorsa inestimabile per ogni artista che desideri esplorare nuovi orizzonti creativi e connettersi profondamente con la propria arte e con il pubblico.

Lorenzo Pierobon 2024 ©

 

 

Direzione, intenzione, proiezione: il triangolo della voce

Il “Triangolo della Voce” non è solo un concetto teorico, ma un vero e proprio strumento pratico che può aiutarci a comprendere meglio le dinamiche di questo mezzo espressivo, ponendo l’accento su tre aspetti fondamentali: direzione, intenzione e proiezione. Questi tre elementi non solo influenzano la qualità e l’efficacia del canto, ma giocano anche un ruolo cruciale nella connessione tra cantante e ascoltatore, nonché nell’impatto terapeutico della voce.

Direzione: orientamento della voce

La direzione rappresenta l’orientamento fisico e mentale del cantante. Sul piano fisico, implica il controllo della postura, della respirazione e della risonanza per dirigere il suono in modo efficiente. Ad esempio, una buona postura e una respirazione diaframmatica permettono al cantante di mantenere il controllo del flusso d’aria, che è fondamentale per una voce stabile e potente.

Sul piano mentale, la direzione implica la consapevolezza dell’obiettivo del canto, che può variare dal raggiungimento di una determinata nota alla comunicazione di un’emozione specifica. Le neuroscience spiegano che il cervello umano è altamente coinvolto nella produzione vocale, con diverse aree cerebrali che cooperano per controllare il tono, il timbro e la dizione. Una direzione chiara può migliorare la precisione vocale e la coerenza espressiva, poiché il cervello coordina meglio i muscoli coinvolti nella produzione del suono.

Le due direzioni.

Interna

Quando cantiamo dirigendo il suono verso il centro del corpo, creiamo una vibrazione che può sciogliere tensioni e blocchi emotivi. Questo processo può aiutare a risvegliare parti di noi stessi che sono rimaste silenti, offrendo una nuova consapevolezza e pace interiore.

Esterna

Proiettando la voce verso l’esterno, possiamo esprimere noi stessi con forza e chiarezza. È come lanciare  un messaggio al mondo, affermando la nostra presenza e unicità. In questo modo possiamo creare una connessione potente con gli ascoltatori, comunicando emozioni e pensieri in modo diretto e coinvolgente.

Intenzione: energia  emotiva e creativa

L’intenzione è l’energia emotiva e creativa che  i cantanti mettono nella loro espressione vocale. Questo elemento è fondamentale per creare un collegamento emotivo con l’ascoltatore. Nel canto, l’intenzione può variare dalla narrazione di una storia alla condivisione di un’esperienza personale. Ogni canzone ha il potenziale di evocare emozioni profonde, e l’intenzione del cantante è ciò che dà vita e autenticità alla performance.

Nel contesto del canto terapeutico, l’intenzione assume un ruolo ancora più significativo. Il canto è utilizzato in molte culture antiche come strumento di cura, grazie alla sua capacità di influenzare lo stato mentale e emotivo. La scienza moderna supporta questa idea, studi recenti hanno dimostrato che il canto può ridurre i livelli di stress e ansia, migliorare l’umore e persino stimolare il rilascio di endorfine, sostanze chimiche  associate al benessere. L’intenzione di benessere e cura dunque, diventa un canale attraverso il quale il cantante può trasmettere vibrazioni positive e calmanti, che possono avere un effetto terapeutico sugli ascoltatori.

I quattro tipi di intenzione.

Esplorativa

Cantare con l’intento di esplorare nuove sfumature della nostra voce e del nostro essere è un atto di scoperta personale. Questo processo può svelare potenzialità vocali nascoste e arricchire la nostra espressione artistica e personale.

Catartica

L’intenzione catartica nel canto è rivolta alla liberazione delle emozioni represse. Questo può fornire un sollievo significativo, aiutandoci a gestire meglio lo stress e le tensioni quotidiane. La liberazione emotiva attraverso il canto è una pratica che risale a tempi antichi, utilizzata in molte culture come strumento di purificazione e rinascita.

Curativa

Cantare con l’intenzione della cura può influire positivamente sul benessere fisico e psicologico. Studi neuroscientifici hanno dimostrato che il canto può stimolare il rilascio di endorfine e migliorare l’umore, riducendo i sintomi di ansia e depressione.

Connessione

Infine, l’intenzione di connessione è quella che cerca di creare un legame con gli altri e con il mondo. Cantare in gruppo o per un pubblico può costruire una sensazione di appartenenza e comunità, rafforzando i legami sociali e promuovendo l’empatia. (vedi l’articolo: La preparazione di un concerto: un viaggio tra simbolo, metafora e senso del sacro)

Proiezione: trasmissione della voce

La proiezione è il vertice del triangolo e rappresenta il modo in cui la voce del cantante viene trasmessa all’ascoltatore. Una buona proiezione richiede non solo una tecnica vocale solida ma anche una forte connessione emotiva e fisica con il pubblico. Nel canto, la proiezione è spesso associata alla capacità di riempire uno spazio con il suono, ma è anche una questione di trasmettere chiaramente il messaggio e le emozioni.

Nel canto terapeutico, la proiezione è cruciale per l’efficacia del trattamento. Ad esempio, nelle pratiche di canto armonico, il cantante usa tecniche specifiche per creare frequenze che risuonano in diverse parti del corpo, influenzando così l’equilibrio energetico e promuovendo il benessere. La proiezione non è solo una questione di volume, ma anche di qualità del suono e di intonazione, che possono influenzare il sistema nervoso e le onde cerebrali degli ascoltatori.

Il Triangolo della Voce offre un modello per esplorare il potenziale della voce umana sia nel campo artistico che in quello terapeutico. La direzione, l’intenzione e la proiezione sono elementi interconnessi che, se ben compresi e sviluppati, possono elevare l’esperienza della Voce a livelli straordinari. Questa consapevolezza non solo arricchisce la pratica vocale ma offre anche strumenti per la cura e il benessere, dimostrando ancora una volta il potere trasformativo della voce umana.

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I dodici archetipi di Jung la Voce e il canto

Carl Gustav Jung ha introdotto il concetto di archetipi come modelli universali presenti nell’inconscio collettivo. Questi archetipi rappresentano personaggi e simboli ricorrenti nelle storie, nei miti e nella psiche umana, influenzando profondamente il comportamento e le emozioni. Nella pratica del canto, questi archetipi possono trovare una loro espressione e diventare strumenti di connessione con le dimensioni più profonde del Sé. La voce, come mezzo di espressione primaria e personale, può incarnare queste figure archetipiche, creando un ponte tra l’inconscio e il mondo esterno.

Di seguito esploriamo i 12 archetipi di Jung e come ciascuno di essi possa influenzare e arricchire l’espressione vocale e il canto, sia nel contesto del canto tradizionale che in quello del canto armonico.

Il Saggio: rappresenta la ricerca della verità, della conoscenza e della comprensione più profonda. Il Saggio è riflessivo e consapevole, e la sua voce esprime calma, consapevolezza e autorità silenziosa. Nel canto, questo archetipo si manifesta attraverso un uso pacato della voce, con toni gravi e profondi, capaci di trasmettere conoscenza e tranquillità. L’uso di toni bassi e stabili favoriscono la meditazione e l’introspezione, permettendo al cantante di raggiungere una condizione di centratura interiore.

L’Innocente: è ottimista, puro e fiducioso. Questo archetipo si affida alla bontà del mondo e alla semplicità della vita. La voce dell’Innocente è luminosa, leggera e priva di complessità emotive. Nel canto, l’Innocente evoca melodie semplici e gioiose, con toni chiari e leggeri che trasmettono purezza e serenità. Una voce chiara e senza tensioni, che si esprime attraverso melodie delicate e ritmiche semplici.

L’Esploratore: è spinto dal desiderio di andare oltre i confini del conosciuto, alla ricerca di nuove esperienze e possibilità. Nel canto, l’Esploratore si manifesta attraverso l’innovazione e la sperimentazione vocale, giocando con ritmi, melodie e tecniche inusuali. La sua voce è dinamica, flessibile e aperta a esplorare nuove strade. Una voce che si avventura fuori dagli schemi tradizionali, sperimentando nuove melodie e tecniche vocali.

Il Sovrano: rappresenta il potere, il controllo e la padronanza di sé. Questo archetipo incarna l’autorità e la capacità di organizzare e dominare. Nel canto, il Sovrano si esprime con una voce forte, ben controllata e proiettata, che trasmette sicurezza e leadership. Una voce decisa, potente e ben modulata, che proietta un senso di comando e stabilità., controllo preciso delle risonanze vocali, dimostrando padronanza tecnica e forza interiore.

Il Creatore: è l’archetipo dell’innovazione e dell’immaginazione. Egli si esprime attraverso la creazione di qualcosa di nuovo, unico e personale. Nel canto, il Creatore trova espressione attraverso l’invenzione di melodie e armonie originali, che rappresentano la volontà di dare forma a emozioni e pensieri . L’uso della voce per creare combinazioni sonore innovative e armonici complessi, sperimentando nuove risonanze e tecniche vocali.

L’Angelo Custode: è l’archetipo della protezione, della cura e della compassione. Rappresenta l’amore altruistico e il desiderio di proteggere e prendersi cura degli altri. La voce dell’Angelo Custode è dolce, accogliente e rassicurante, capace di creare un senso di sicurezza e conforto. Una voce morbida e calorosa, che trasmette amore e conforto, capace di  creare un’atmosfera di serenità e protezione, favorendo il rilassamento e il benessere.

Il Mago: è l’archetipo della trasformazione e della magia. Egli è in grado di influenzare il mondo e le persone attraverso la sua capacità di trasformare l’energia e la materia. Nel canto, il Mago si esprime attraverso una voce che cambia e si trasforma, utilizzando variazioni dinamiche e timbriche per guidare il processo di cambiamento interiore. L’esplorazione delle risonanze profonde per indurre stati di coscienza alterati e favorire la trasformazione interiore.

L’Eroe: rappresenta il coraggio, la forza e la volontà di affrontare sfide e difficoltà. Questo archetipo è guidato dal desiderio di superare gli ostacoli e raggiungere i propri obiettivi. Nel canto, l’Eroe si esprime con una voce potente e sicura, capace di trasmettere determinazione e resistenza.  Una voce forte e determinata, che comunica coraggio e forza di volontà,  il  controllo tecnico  per esprimere potenza interiore, mantenendo un equilibrio stabile tra forza e precisione.

Il Ribelle: è colui che sfida le regole e le convenzioni, cercando di cambiare il sistema. Questo archetipo è caratterizzato da un desiderio di libertà e indipendenza. Nel canto, il Ribelle si esprime attraverso l’uso di tecniche non convenzionali e dissonanti, rompendo le regole per creare qualcosa di nuovo sfidando le aspettative e le convenzioni  musicali. La sperimentazione con suoni inusuali e dissonanti, spingendo la voce verso nuove possibilità espressive.

L’Amante: rappresenta l’amore, la passione e il desiderio di connessione emotiva e fisica. Questo archetipo è guidato dall’emozione e dal desiderio di creare legami profondi. Nel canto, l’Amante si esprime con una voce calda, sensuale e avvolgente, capace di trasmettere intensità emotiva e intimità. Una voce calda e ricca di emozione, che trasmette passione e desiderio.

Il Giullare:  rappresenta la gioia, la leggerezza e la capacità di vivere il momento presente. Questo archetipo cerca di portare allegria e leggerezza nella vita, ridendo di sé stesso e del mondo. Nel canto, il Giullare si esprime con una voce giocosa, dinamica e ricca di energia. Una voce leggera e vivace, che si muove rapidamente tra diversi registri, creando un senso di gioco e spensieratezza. L’uso di ritmi veloci e suoni brillanti per evocare gioia e movimento.

L’Orfano: rappresenta la vulnerabilità, la solitudine e il desiderio di appartenenza. Questo archetipo si confronta con la perdita e la mancanza, ma è anche caratterizzato da una forte capacità  di resistenza e speranza. Nel canto, l’Orfano si esprime con una voce fragile e malinconica, che trasmette vulnerabilità e desiderio di connessione. Una voce delicata e malinconica, che esprime sentimenti di solitudine e ricerca interiore.

I 12 archetipi junghiani offrono una mappa potente per esplorare il mondo interiore attraverso la voce e il canto. Ogni archetipo incarna un’energia specifica che può essere canalizzata nella pratica vocale, arricchendo l’espressione musicale e offrendo nuove vie di connessione con le proprie emozioni e il proprio inconscio.

Lorenzo Pierobon 2024 ©