Archivio mensile 19 Febbraio 2021

La sacralità del Suono e della Voce

la sacralità del suono, si può ritrovare  in numerose culture e tradizioni, in ogni angolo del mondo. I sufi, attribuiscono al suono qualità divine, e ascoltando alcuni loro canti o musiche, si intuisce ben presto l’importanza degli armonici. In questi canti, la voce, viene “spinta” e fatta risuonare nella testa. Ne scaturisce un suono molto alto, che a volte perde i connotati di voce umana per trasformarsi in morbide sonorità flautate che trasportano il messaggio mistico agli iniziati.

Nel monastero sul monte Athos i monaci ortodossi (padri dioratici) intonano da tempo immemore, canti ricchi di armonici con una tessiture e sonorità molto simili al canto gregoriano, la bellezza degli armonici contenuti in questo  canto risuona nelle cattedrali del vecchio continente,  viene eseguito all’unisono dai monaci cantori creando così armonici naturali che accompagnano, come una sorta di melodia fantasma, tutto il canto. con il passare del tempo viene elaborato e cantato a due voci: quella principale esegue la melodia base mentre un’altra accompagna, passo dopo passo, armonizzando con diversi intervalli.  

Nelle steppe, nei boschi e tra le montagne della  Mongolia, Tuva e Siberia gli overtones trovano la loro più alta realizzazione nella tecnica di canto chiamata hoomi (choomig, xoomij) o “canto di gola”, che  prevede una emissione con due differenti suoni di altezza diversa. Uno di questi è il suono nasale-alto che corrisponde alla fondamentale, il secondo è una nota penetrante e tagliente (una sorta di fischio) che forma una melodia al di sopra della fondamentale. Hamel ci offre una efficace descrizione di come un cantante mongolo possa emettere due o più contemporaneamente :

“egli intona una nota nasale di media altezza, mentre aprendo e chiudendo la bocca, modifica il volume della cavità orale stessa, così facendo varia lo spettro armonico di queste lunghe note. All’improvviso nel punto più alto dell’emissione una melodia cristallina ne scaturisce…..”.

Da questo si evince  come i più abili cantori siano ritenuti in possesso di speciali facoltà, tra le quali quella di comunicare con gli spiriti. Ancora non si conosce la ragione profonda di questo tipo di canto ma, come spiega l’etnomusicologo Ted Levin ( Tuva : Voci dall’Asia centrale), è sicuramente correlato al rapporto dell’uomo con la natura :

“anche oggigiorno il canto di gola è strettamente connesso al rapporto con la natura, e sembra rispondere all’esigenza dell’uomo di esprimere il suo sentimento nei confronti della bellezza della natura. I pastori solitari che conducono le greggi nella steppa, non cantano per gli altri, ma per se stessi, per l’erba, le montagne , il vento, il cielo, la bellezza che li circonda.”

Ritroviamo questi aspetti e questo tipo di canto anche nella tradizione sciamanica dei buriati, popolazione nomade di Tuva (regione della Mongolia occidentale), questo ci è stato confermato parlando con una psichiatra che attualmente lavora presso luna struttura ospedaliera locale  : oggi lo sciamanesimo è praticato liberamente; esiste perfino una clinica sciamanica dove farsi visitare e curare con gli antichi metodi locali. La stessa dottoressa ci ha confermato di avere seguito alcuni casi di guarigione, operata da sciamani, che risultano a tutt’oggi di difficile interpretazione da parte della medicina ufficiale.

L’uso degli armonici nei riti sciamanici è praticato in un vasto numero di regioni al di fuori della Mongolia e dell’Asia , da quella degli eskimo dell’Alaska a quella dei boscimani africani. Anche i maya possedevano una tradizione simile  basata sull’uso del suono e degli armonici ottenuti con strumenti o con la voce, con l’intento di creare energia luminosa ed  evocare così energie spirituali. Gli aborigeni australiani utilizzano per le loro cerimonie tribali uno strumento a fiato che produce una notevole quantità di armonici, il didgeridoo.

Questo strumento è ricavato da rami di eucalipto il cui interno è stato svuotato e “lavorato” dalle termiti. Il didgeridoo produce una nota fondamentale molto bassa, correlata da una serie di overtones molto distinti (il suono prodotto è molto simile a quello delle voci dei monaci tibetani, di cui parleremo più avanti). Lo strumento è suonato soffiando vigorosamente alla sua imboccatura e sfruttando la vibrazione delle labbra ; per essere correttamente suonato richiede la padronanza della respirazione circolare : una tecnica che permette di tenere in “tensione” il suono dello strumento mentre allo stesso tempo si inspira. La tecnica qui descritta ci introduce all’importanza della respirazione nelle cerimonie di tipo tribale/rituale. Gli aborigeni australiani credono che prima dell’apparire dell’uomo sulla terra esistesse una razza di esseri sovrannaturali chiamati Wandijna, facenti parte della razza del “tempo dei sogno” , responsabile della creazione di tutte le forme ed esseri del pianeta. Quando l’uomo fu creato questa “super razza” se ne andò lasciando in regalo agli aborigeni il didgeridoo. Quando questo strumento suona crea un campo sonico ed apre una finestra interdimensionale che permette a queste popolazioni tribali di mettersi in contatto con i Wandijna.

Pare accertato che questo strumento oltre ad essere utilizzato per o riti tribali, venga impiegato in cerimonie di guarigione. La persona ammalata si distende a terra mentre il guaritore soffiando nel didgeridoo ed invocando gli spiriti, fa risuonare la parte malata del paziente e ne provoca la guarigione.  A questo proposito Jim Edward[1] “si ritiene il suono del didgeridoo nei rituali del mattino capace di rendere confortevole il viaggio del defunto  verso la terra dei morti. Le persone cantano per un viaggio sicuro, senza pericoli per l’anima, questo contribuisce a creare uno stato di calma tra i presenti alla cerimonia. Esistono specifiche musiche,  canzoni, suoni, che vengono tramandati di generazione in generazione ed utilizzati nel tempo per questo scopo specifico. Spesso sono gli stessi spiriti che inviano allo sciamano le parole o i suoni da utilizzare; ai non iniziati queste formule possono apparire  sequenze senza senso, che assumono tuttavia la loro forza quando utilizzati nelle cerimonie. Un esempio di ciò lo troviamo presso i nativi americani. Come dice

Joseph Rael ( Freccia Dipinta) “molti di questi suoni li ho imparati, altri è la medicina stessa che me li insegna”.

Il rituale collettivo di guarigione costituisce l’avvenimento centrale nella vita culturale e spirituale dei boscimani, non a caso lo si può considerare il simbolo di questa società che è regolata in base allo stato di salute dei suoi componenti costretti a vivere in condizioni estreme. La figura centrale è lo sciamano,che  attraverso i suoi poteri allontana la morte o la malattie che minacciano  i singoli gruppi familiari.

I boscimani amano la musica, il canto e la danza. Il loro principale strumento musicale è una sorta di arco, che tengono premuto contro la bocca : la corda viene pizzicata ripetutamente, e la tonalità delle note è modificata dall’ampiezza della cavità orale (questo tipo di tecnica è utilizzata anche dalle popolazioni dell’Asia centrale per ottenere, con la voce, i diversi armonici) . Nelle cerimonie dei boscimani, le donne siedono intorno ad un grande fuoco, intonano canzoni purificatrici e battono le mani seguendo un ritmo intervallato e penetrante, che fa da contrappunto alla cadenza delle loro voci. Gli uomini girano lentamente attorno e dietro alle donne emettendo suoni gutturali. La danza gradualmente accelera, i canti si fanno più alti, l’atmosfera più intensa. Lo sciamano  che guida la cerimonia, salta dentro il cerchio delle donne agitandosi e gridando, si dirige verso il fuoco tentando di gettarvisi, ma viene trattenuto dalle donne che spengono con le mani i suoi capelli brucianti e lo stendono per terra dove egli giace in stato di trance, quando si rialza tocca ad una ad una le donne per scacciare gli spiriti maligni, emettendo di volta in volta un suono ben preciso. Il rituale prosegue per tutta la notte, scandito dal suono delle voci e dalla ritmica degli strumenti ad arco ( i boscimani non utilizzano tamburi ) fino all’alba, quando tutti i partecipanti cadono in un sonno profondo.

Bisogna risalire al 1400 circa per comprendere il tradizionale canto dei monaci tibetani dei monasteri di Gyuto e Gyume. Si narra che una notte il lama Je Tzong Sherab Senge udì in sogno un suono mai udito prima, era una voce incredibilmente bassa e profonda che suonava quasi come il ringhiare di un animale e aveva ben poco di umano. Alla prima voce si univa contemporaneamente una seconda voce cristallina e pura, dalle tonalità alte. Nel sogno il lama Je Tzong si accorse di essere egli stesso ad emettere quello strano suono. Venne inoltre istruito su come utilizzare questo tipo di canto, che univa entrambi gli aspetti dell’essere umano, quello maschile e quello femminile, un canto tantrico che in esso racchiudeva l’essenza stessa dell’universo. Il giorno dopo cominciò a recitare le preghiere seguendo questa tecnica. Cinquecento anni dopo, nei monasteri di Gyuto e Gyume (Lhasa) i monaci continuano a recitare i mantra con la stessa tecnica, che apprendono appena novizi e che viene tramandata per via esclusivamente orale. Questa tecnica permette a ciascun monaco di emettere più suoni contemporaneamente creando una sorta di accordo.

Ascoltare questo tipo di canto è veramente un’esperienza fuori dal comune come ci riporta il Dott. Huston Smith nel suo film: Requiem for a Faith:” questi monaci, riescono ad utilizzare la cavità orale in modo da enfatizzare gli armonici che si delineano chiaramente fino a formare una melodia al di sopra della nota fondamentale. Il significato di questo sta nel focalizzare l’attenzione al sacro dall’esterno all’interno, di udire ciò che non è udibile” .I musicologi hanno successivamente determinato che la nota bassa (fondamentale) è due ottave più bassa di un DO (centrale) e vibra alla velocità di 75.5 cicli al secondo, Questo tipo di canto favorisce, in chi lo pratica, la sensazione di una fusione/unione con l’universo e con le sue forze creatrici,  secondo Terry Jay Ellingson[2]: “vi sono diversi motivi che si celano dietro a questa misteriosa vocalità: quello di celare il significato delle parole ai non iniziati, di  trasformare le parole nel suono omogeneo del sacro Om, ed infine di  stimolare i chakras. E’ difficile identificare il profondo  significato di questo tipo di canto, di sicuro l’uso di una respirazione “specializzata”, il risuonare delle cavità della testa, e l’approccio meditativo/reverenziale ne fanno uno strumento estremamente potente ed utilizzabile anche a scopo terapeutico (anche come solo ascolto). Interessante è notare la qualità e la somiglianza del suono prodotto con quello emesso dal didgeridoo degli aborigeni australiani.

Per gli indù è fondamentale il canto dei suoni sacri, (OM AHUM) e quello dei mantra (come OM MANI PADME HUM). Vengono intonati singolarmente, a scopo meditativo, oppure durante riti collettivi. È qui che il loro potere viene amplificato dal canto corale e dalla reiterazione, i partecipanti  prendono il respiro all’unisono e iniziano a cantare, mentre uno finisce, un altro  ricomincia creando un flusso continuo, una pulsazione sonora. Il suono corale crea così un ambiente fortemente mistico-spirituale e predispone a stati di coscienza più elevati.

Lorenzo Pierobon © 2021

 

[1] Jim Edward, All about didgeridoo

[2] Terry Jay Ellingson, The mandala of sound

 

Il rapporto musica-medicina nella storia

In tutte le antiche civiltà la musica ha rivestito spesso il ruolo di contatto con il “divino”, non veniva considerata come opera dell’essere umano, ma come quella di un essere sovrannaturale.
Infatti il suono, proprio per la sua natura impalpabile, era qualcosa di incomprensibile e perciò misterioso e magico. I riti di guarigione diretti dallo sciamano venivano frequentemente accompagnati dalla musica, la quale diventava il mezzo di comunicazione con lo spirito della malattia e lo strumento di dominio della stessa. Attraverso la prolungata monotonia del ritmo, la musica esprimeva la volontà di guarigione dello sciamano e svolgeva una funzione ipnotica. Nel canto si avvicendavano parole di persuasione o minaccia, seguendo una melodia che diventava più lenta o più veloce, più grave o più acuta a seconda delle fasi del rito di guarigione.
La convinzione primitiva che la malattia fosse provocata da uno spirito maligno durò a lungo, specialmente in riferimento ai disturbi mentali. La musica quindi diveniva lo strumento di persuasione (e propiziatorio) e acquistava un significato più propriamente religioso. Fu la civiltà greca ad accostarsi in maniera più razionale all’elemento sonoro-musicale. La musica fu adoperata come mezzo curativo o preventivo supponendo che certi modi (combinazione di suoni in successione) avessero un valore emozionale. Platone riteneva che ciascun modo producesse effetti specifici sui costumi morali, Aristotele raccomandava l’impiego del modo dorico che infondeva coraggio o di quello lidio più adatto ai bambini piccoli.
Anche gli strumenti svolgevano delle funzioni ben definite; il flauto era lo strumento ritenuto in grado di destare le passioni e per questo Aristotele affermava che doveva essere usato solo quando l’oggetto della musica era la purificazione delle emozioni e non lo sviluppo della mente. In epoca romana, l’uso del suono come terapia di guarigione, conservava forti influenze derivanti dalla cultura greca.
Nel medioevo ritroviamo la musica/suono utilizzata nelle pratiche religiose o per riti magici (nei sabba le streghe ballano ritmi frenetici per invocare i demoni). Di nuovo la malattia era vista come possessione ( i tarantolati ne sono un esempio tramandato fino ai nostri giorni) e la musica riacquistava connotati magici. Dobbiamo arrivare al periodo rinascimentale per ritrovare la musica come strumento terapeutico, studiata in maniera razionale e scientifica. Dal 1500 in poi, numerosi uomini di medicina si interessarono a quest’arte; alcuni la concepivano semplicemente come mezzo di evasione, altri invece approfondirono gli studi sulle modificazioni fisiologiche indotte dalla musica, studiandone gli effetti prodotti sulla pressione sanguigna, sul respiro, sulla digestione e scoprendo relazioni tra i ritmi corporei e quelli musicali. Da allora fino ai nostri giorni, esistono numerose testimonianze sull’uso dell’arte musicale come strumento terapeutico. Il termine musicoterapia però, è stato coniato e utilizzato solo a partire dagli anni ’50, quando negli Stati Uniti si ottennero i primi risultati positivi introducendo la terapia musicale negli ospedali per veterani di guerra.

Lorenzo Pierobon © 2021