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IL SUONO IMMOBILE

Il ruolo e la gestione del silenzio nel modello di MT Benenzon.

“Generalmente si definisce il silenzio come l’assenza di rumore, di agitazione. Il vero silenzio è molto più di un’assenza di rumore, è al di sopra della parola, al di sopra della musica: è un centro potente da cui scaturiscono tutte le creazioni.

Omraam Mikhaël Aïvanhov

 

“In principio era il Verbo……”, il suono creatore, ma prima del principio, probabilmente, esisteva il suono a cui tutto dobbiamo: il silenzio. Il silenzio alfa ed omega di ogni esistenza, inizio e fine di ogni seduta di musicoterapia, croce e delizia di ogni musicoterapeuta.

Temiamo il silenzio come se fosse portatore di un inganno, di un precipitare verso un vuoto dal quale non sappiamo difenderci. La nostra vita, riempita dalla velocità del fare, dedita alla costruzione di una personalità esteriore, non è più in grado di sopportare l’immobilità del silenzio, che invece si rivela la nostra parte più autentica e ricca di intuizione. Lasciare che questo spazio interiore ritrovi la sua collocazione nel nostro essere ci permette di lasciare il campo alla mente intuitiva ed osservatrice in grado di cogliere tutto quello che può arrivare sotto forma di “percezione improvvisa”, di “lampo”, uno stato interno che da vigore al corpo e chiarezza alle emozioni, spesso contaminate dal giudizio. Quello a cui aspiriamo all’interno di una seduta di musicoterapia è una comunicazione non verbale frutto di un ascolto interiore, dove il paziente non sia considerato un appiglio, ma un compagno di viaggio verso la costruzione di un contenitore emotivo.

L’instaurarsi del silenzio esalta i suoni della vita: il respiro, il battito cardiaco, e ci conduce verso una ricerca nirvanica del mai dimenticato suono intrauterino. Restare nel silenzio, nutrirsi del silenzio, significa attivare un profondo ascolto empatico, prepararsi ad entrare in contatto con l’altro agire nel suo mondo. E’ la capacità di immergersi nello spazio altrui e di partecipare ad una esperienza comune attraverso il non verbale. Il silenzio è una liturgia che attiva la relazione. In musicoterapia questo suono è quasi una necessità che prepara all’ascolto e alla interazione, per questo bisogna coltivare il rispetto e la comprensione del silenzio, questo “non luogo” che da origine all’ascolto, all’attesa, all’accoglienza; il musicoterapeuta ed il paziente li stabiliscono uno spazio profondo di condivisione che spesso si oppone all’isolamento. Una delle difficoltà che incontra il MT nello svolgimento della seduta, a mio avviso, è proprio la gestione del silenzio e di tutte le emozioni e scariche energetiche che ne conseguono, sia da parte del musicoterapeuta, che del paziente. Angoscia, ansia, paura, senso di inadeguatezza, tutti questi fantasmi improvvisamente si materializzano tra le pieghe di questo suono immobile. Molto spesso nelle sessioni di musicoterapia una parte di noi (terapeuti e pazienti) è attratta dal suono, bisogna riconoscere questo, perché la manifestazione sonora impedisce il manifestarsi dell’angoscia, infonde un senso di sicurezza.

Il suono ci protegge da riflessioni, allontana gli incubi, il suono è immediato e prepotentemente presente. Ma cosa pensiamo realmente di fronte al silenzio? Ci preoccupiamo di non capire i comportamenti del paziente? Lasciamo spazio alla sensazione di inadeguatezza? Riteniamo che possa significare una resistenza e per questo ci sentiamo in obbligo di “fare qualcosa” perdendo di vista il focus della seduta? Evidentemente è necessario che il musicoterapeuta abbia eliminato la paura del suo silenzio dalla mente perché questo possa esprimersi come reale valore e non essere interpretato come possibile resistenza. Dobbiamo, allora decidere di accettare il silenzio come “mezzo” e di utilizzarlo per “entrare dentro”, in esplorazione, ma rimanendo saldi nel nostro punto di percezione. Per dare ascolto sia a noi stessi che agli altri per imparare che nel silenzio in realtà c’è il suono. Quello che noi cerchiamo non è nei suoni, ma tra i suoni, non è nelle parole, ma tra le parole, restare nell’universo silenzioso significa ritrovare il mondo del simbolismo e il significato corporeo, o come diceva Simone Weil: “Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti”. E allora come fare? Non è sempre facile restare nel silenzio, attendere, spesso mi sono sentito in dovere di interrompere il silenzio per “fare musicoterapia” per non essere obbligato a restare in quell’universo in cui il paziente mi voleva con se. In questi momenti nella testa passano tanti dubbi e tante domande: cosa sto facendo? Quanto ancora dovrò aspettare? Questa assenza di suono sarà produttiva, porterà a qualcosa? E ancora, sentirsi quasi in dovere di produrre un suono, per me, per lui, per chi ascolta ed attende fuori dal setting, spesso mi sono sentito trascinato nella condizione di dover “fare”, per la paura del giudizio di chi non potrebbe capire quell’assenza di suono così prolungata. Padroneggiare adeguatamente questo “non suono”, non è cosa semplice, ma l’esperienza ed il tempo vengono in aiuto, posso dire con certezza che crescere (anche professionalmente) sia stato un aiuto più che concreto nell’aiutarmi a gestire questi momenti. Esperienza e ore di lavoro accumulate aiutano, ma mi metto anche nei panni di chi affronta questo percorso per la prima volta soprattutto in età molto giovane; a mio avviso il saper restare nel silenzio procede di pari passo con l’avanzare dell’età. Un aiuto ulteriore è sicuramente arrivato dall’intraprendere un lavoro ed una ricerca personale, attraverso tecniche quali la meditazione (o altre discipline orientali), che insegnano a stare nel silenzio, a non averne paura, ma a considerarlo un alleato. Il silenzio “esterno” che inevitabilmente si crea sposta l’attenzione verso l’interno, obbligandoci così ad ascoltarci intimamente e ad accedere a quello spazio intimo e silenzioso che mi piace definire il “luogo interiore”.

Lorenzo Pierobon

 

Melodie Cellulari: nuove prospettive di medicina rigenerativa

Questo video del Prof. Carlo Ventura, che ringrazio sentitamente per la sua ricerca sul campo, illustra i meravigliosi meccanismi che sottendono alle attività artistiche, musicali e vocali, ancora una volta la Scienza restituisce dignità e rispetto a tutte le pratiche derivate da antiche conoscenze ed elevata consapevolezza.  Proseguiamo senza indugio nelle nostre ricerche e nel nostro lavoro per permettere ad un numero sempre più elevato di persone di poter accedere a queste conoscenze.

Il canto migliora la qualità della salute nei pazienti Long Covid (The Lancet)

Un programma incentrato sulla riqualificazione respiratoria tramite tecniche di canto e pratiche olistiche.

Studio completo (English Version)

Sempre più spesso si torna a parlare di tecniche legate alla Voce, al canto e al respiro per migliorare la salute fisica e mentale delle persone. Secondo uno studio pubblicato su  Lancet Respiratory Medicine, un programma di respirazione specializzata e pratiche olistiche può migliorare la dispnea e la componente mentale della qualità della vita correlata alla salute nei soggetti con sintomi persistenti dopo Covid-19.

«Ci sono pochi interventi evidence-based per il long Covid, tuttavia, si consigliano pratiche  olistiche a sostegno del recupero. Abbiamo valutato se un programma di respirazione e benessere potesse migliorare la qualità della vita in questa popolazione» spiega Keir Philip, dell’Imperial College di Londra, primo nome dello studio. I ricercatori hanno valutato i dati di pazienti adulti trattati per long Covid nel Regno Unito dopo Covid-19 che presentassero affanno, con o senza ansia, ad almeno quattro settimane dall’insorgenza dei sintomi della malattia. I partecipanti al gruppo  hanno seguito un programma di respirazione e benessere di sei settimane, sviluppato per persone con long Covid che soffrono di dispnea, e incentrato sulla riqualificazione respiratoria tramite tecniche di canto e pratiche olistiche. 
L’analisi tematica dell’esperienza dei partecipanti  ha identificato tre temi chiave, ovvero i miglioramenti nei sintomi, la sensazione che il programma fosse complementare alle cure standard, e la particolare idoneità del canto e della musica a soddisfare i loro bisogni. «Approcci basati sul rapporto tra mente e corpo e sulla musica, che comprendono tecniche di gestione dei sintomi e pratiche ludiche, possono avere un ruolo importante nel supportare la guarigione» concludono gli autori.

Seminario: Oltre la Voce il rito del Solstizio 20-23 giugno 2024- Rapallo (GE)

Montallegro-Rapallo  20- 21-22-23 giugno 2024

Edizione speciale per celebrare il ventennale di questo ritiro, abbiamo deciso di aggiungere una giornata in più per rendere ancora più profondo e coinvolgente il lavoro che svolgeremo, inoltre nella seraat di sabato  22 giugno verrà proposto un concerto rituale , nella splendida cornice del bosco superiore (aperto al pubblico esterno), dell’Harmonics Art Ensemble composto dai partecipanti al seminario più ospiti speciali.

Un bosco magico pieno di lucciole, un panorama mozzafiato, un luogo incantato; questa sarà  la cornice  dell’edizione 2024 del seminario OLTRE LA VOCE.

20ma  edizione:

Asclepeion il tempio della Voce condotto da Lorenzo Pierobon. Un’occasione per entrare in contatto profondo…

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Le cinque stanze e il mistero della Voce

Entrare in contatto profondo con la voce comporta un viaggio fortemente simbolico “da fuori a dentro”, la possibilità di unire la linea orizzontale con quella verticale, per questo ho sentito l’esigenza di creare il percorso delle cinque stanze, una modalità di preparazione e di riscaldamento con tre diversi livelli di fruizione: fisico, energetico, simbolico. In questa esplorazione entreremo in possesso di strumenti da utilizzare, simboli, intuizioni, otterremo  la possibilità di liberarci dei nostri fardelli emotivi, energetici, mentali. Chi conosce il mio lavoro sulla voce sa che ogni incontro, individuale o di gruppo, inizia sempre in modo rituale con il percorso delle cinque stanze.

LA STANZA DEL SUONO: dedicata al paesaggio sonoro che ci accompagna nel percorso, il primo passo è quello di entrare in contatto profondo con tutte le fonti sonore presenti nel “qui e ora”, affinando l’udito si aumenta la concentrazione e la presenza.

LA STANZA DELLA MATERIA: entriamo in contatto con con il corpo evidenziando i messaggi che quest’ultimo ci invia incessantemente; aumenteremo così la consapevolezza dei blocchi e delle tensioni fisiche.

LA STANZA DELLE EMOZIONI: il contenitore del nostro stato d’animo, qui possiamo percepire in modo netto le emozioni che governano il nostro essere nel momento presente.

Le prime tre stanze permettono al nostro sistema corpo/mente di entrare in uno stato di profonda attenzione e presenza.

LA STANZA DEL RESPIRO: qui avviene il contatto alchemico tra terra e cielo, la trasformazione del respiro meccanico in respiro consapevole. Successivamente attraverso l’emissione di alcuni suoni consonantici ci concediamo la possibilità di liberare simbolicamente tutto ciò che può ostacolare il nostro percorso: paure, tensioni, blocchi e pensieri negativi.

LA STANZA DELLA VOCE: il luogo piú sacro della “cattedrale sonora” in cui viene custodito il Mistero, qui inizia il riscaldamento vocale e la pratica esoterica della Voce, entriamo in contatto con il non luogo: L’altrove.

Lorenzo Pierobon © 2014

La voce il simbolo e la cattedrale sonora

Usare la Voce in modo esoterico significa, prima di tutto, utilizzare il potere dell’intenzione per creare a livello sottile il suono, successivamente si attinge alla forza archetipica del simbolo e solo allora si procede a produrre acusticamente il suono, in pratica: dal pensiero al simbolo, dal simbolo alla creazione. Mi piace pensare che attraverso le Voce si possa costruire la ” cattedrale sonora”, un luogo dove esprimere le emozioni più profonde e attivare un processo trasformativo capace di innalzare il nostro canto a livelli superiori. In tempi  antichi, quando si decideva di erigere un edificio sacro, si procedeva ad identificare un luogo preciso piantando un palo di legno nel terreno, attorno a questo centro “energetico” veniva tracciata una circonferenza, e da questo punto preciso preciso si iniziava a edificare  la costruzione sacra. Il  punto  rappresenta il principio, la Fonte, il cerchio  l’eternità, lo spazio fluido, se a questo aggiungiamo le vocali  U I, che nella mia pratica vocale simboleggiano terra e cielo, otteniamo questo potente simbolo di attivazione per la “cattedrale sonora”.

 Lorenzo Pierobon © 2022

 

Voci in ascolto (David Rossato)

Ascolto profondo e improvvisazione

Ascoltare la voce fa parte della nostra esperienza comune: siamo abituati a riconoscere una persona dalla sua voce, anche se non ci appare di fronte. La voce ci permette di riconoscere l’individuo non meno del suo aspetto fisico, infatti, alla singola voce umana Italo Calvino attribuiva la capacità di esprimere la vera identità di chi parla. Nell’ambito della psicoterapia gestaltica, lo stesso Fritz Perls invita i terapeuti a non concentrarsi tanto sui contenuti prodotti dai clienti, sulle loro parole, quanto ad ascoltarne il suono, la musica della voce. Queste suggestioni iniziali sono alla base della mia ricerca intorno all’ipotesi di un counseling centrato sulla voce.

L’incontro di counseling è di fatto un dialogo fra due voci, quella di una persona-cliente e quella di una persona-counselor, e presenta sempre e comunque, anche se implicitamente, delle valenze di cura in quanto è intrinsecamente orientato verso la comprensione, cioè all’aiutare l’altro ad enunciare il proprio mondo di significati. (Lizzola, 2002) Il colloquio di counseling è in questo anche relazione, intesa come tensione tra due soggettività, energia che influenza attraverso il vuoto che c’è tra due persone: noi non possiamo conoscere l’altro, ma solo la relazione che noi abbiamo con esso (E.Spaltro, 1985).

Il processo di counseling è insomma – per usare una metafora musicale – una sorta di improvvisazione a due. Un processo che non può infatti prescindere dall’ascolto attento e profondo dell’altro, e al contempo di se stessi: “è un’abilità centrale” scrive Gabriella Pravettoni “nel lavoro clinico dello psicoterapeuta integrato, poiché la terapia […] presuppone la necessità di vedere l’altro per quello che è ed accettarlo. Attraverso l’ascolto […] può essere in grado di riconoscere nell’altro il fluttuare dei cambiamenti caratteristici del dinamismo insito nella psiche umana” (G.Pravettoni, 1999). Queste parole mi hanno riportato alla mente quelle del filosofo Jean-Luc Nancy che all’ascolto ha dedicato un bellissimo saggio: “Come un rinvio oscillatorio di «consonanze», nella cui «interiorità», nella cui intima e reciproca tensione – di cui evidentemente fa parte integrante il «sentire», l’ «udito» e dunque l’ «ascolto» – prende forma un’identità. Ecco è questa l’ «interiorità», il «suono interiore» […] Un’ «interiorità» che è il «risuonare» delle cose tra loro” (J.L.Nancy, 2004).

Anche per Carl Rogers, il padre del counseling, l’ascolto è una messa in gioco delle parti emotive più profonde, più inconsce, tramite adeguati aggiramenti delle difese razionali. E ciò accade con una serie di aggiustamenti e un continuo scambio tra le parti, che è incontro ed atto creativo bilaterale. Per descrivere il momento di contatto nella terapia fra cliente e terapeuta è stata usata la bella metafora della ricerca di sintonia fra due persone che parlano con una ricetrasmittente. “Ognuna delle due persone deve muoversi lentamente nella ricerca della corretta frequenza di trasmissione senza trascurare il più piccolo indizio trasmesso dall’altra radio. In seguito, stabilito il primo contatto, diventa necessario ottimizzare le frequenze d’onda alla ricerca di una sempre migliore sintonia” (G.Pravettoni, 1999).

Esattamente come nell’improvvisazione musicale: un processo – similarmente a quello terapeutico – in cui vi è un “campo” (cioè uno spazio ed un tempo condivisi che forniscono la struttura – come nel setting), vi sono degli “attori” che si mettono in gioco (e guarda caso in inglese suonare si dice «to play», in francese «jouer») e quindi in movimento ascoltandosi vicendevolmente mentre avanzano, ricercando “in progress” percorsi comuni e una sempre maggiore “sintonia”. Lo scopo lì è “fare musica” insieme in modo armonico, fluido, in modo a-sistematico ma consapevolmente: “l’improvvisazione è tanto più libera quanto più è consapevole” (A.K. Maggia, 2004). Analogamente, nel counseling la relazione d’aiuto si estrinseca attraverso un processo empatico che promuove la libera espressione dell’individuo, basato su presupposti di autenticità reciproca e di consapevolezza.

Sia il counseling che l’improvvisazione musicale si rivela quindi punto d’incontro fra ascolto, consapevolezza e creatività.
E’ innegabile inoltre che il colloquio si esplichi proprio attraverso la materialità della voce: essa trasporta dei contenuti mentali attraverso una fisicità, che è poi sonorità, che fa sì che con essa si trasmetta tutta la carica di relazionalità propria della comunicazione non verbale. La voce possiede sue precipue qualità, che ne costituiscono una vera “forma” (in fisica acustica si parla infatti di “formanti vocaliche” alla base del timbro unico di una voce). Questa forma mette in scena l’interiorità stessa dell’essere umano, facendo accedere a qualcosa di invisibile che si trova al di là dell’apparenza: la voce è aria suonata dal corpo, una risonanza delle cavità interne, ma anche un dare aria all’anima, così come anima all’aria. Ecco quindi che un lavoro sulla voce può entrare a pieno titolo nel processo di potenziamento delle capacità di autopercezione, autoconoscenza, autodeterminazione e comunicazione che sono alla base di qualsiasi approccio di counseling.

 

L’ascolto fluttuante del diapason-soggetto

Tra i fenomeni vibrazionali, generati all’interno del nostro corpo, la voce, intesa come prodotto della sinergia tra respiro e laringe, assume una importanza eccezionale. Lo scopo di questa vibrazione, che, se ben condotta diventa con l’esercizio parola e canto, è quello di raccogliere i vissuti dell’intero corpo e farne, con il suono, uno strumento di comunicazione dall’interno all’esterno e viceversa. Le informazioni che attraverso il suono possiamo ricevere e dare sono di tale portata che ad un orecchio e ad un corpo allenato e consapevole niente sfugge di quanto succede ed è percepibile contemporaneamente da orecchio, occhio, pelle, ossa e sistema nervoso. Su tali principi si fonda il fenomeno dell’empatia.

In tal senso va posta una “distinzione fra oralità e vocalità” definendo «oralità» il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio; «vocalità» l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio. […] Il bambino piccolo non parla, ma quali significati è in grado di comunicare attraverso le semplici modulazioni della propria voce, cui rispondono, più che le parole, le modulazioni della voce della madre! La voce è suono. Il suono è l’elemento più sottile della materia percettibile. Nella storia di ciascuno di noi, come nella nostra storia collettiva, fu proprio esso, in origine, il luogo di incontro dell’universo e dell’intelligenza.” (P.Zumthor, in C.Bologna, 1992).

Ciascuno di noi, nel comunicare con la parola e con il corpo sviluppa un suo specifico linguaggio sonoro, suonando se stesso e risuonando al contatto con il proprio ambiente. Ogni essere umano suona il suo strumento vocale, per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Segnala la parte non-ancora-simbolizzata dell’esperienza psichica attraverso la vocalità, prima che giunga a essere detta. Sviluppa un suo codice sonoro, per segnalare qualcosa di più del puro e semplice messaggio linguistico. Lancia segnali musicali, soprattutto ritmici, in attesa che altri li raccolga e stabilisca con lui un’intesa pre-linguistica, paragonabile all’accordo che si realizza in una danza. […] Un ascolto che sappia conferire il giusto rilievo a suoni e significati verbali […] comporta una sintonia sensoriale, una stretta relazione con la componente fisica delle parole, che facilita una comprensione più completa del loro messaggio. […] In quest’area lavora un pensiero di tipo musicale, che trasforma le immagini in suoni atti a fungere da precursori del linguaggio verbale. […] Rivolgendo l’attenzione al suono più che al significato delle parole si consegue un livello di segni non strutturati secondo la logica verbale e tuttavia già organizzati in una certa misura, sì da potersi configurare come pre-linguaggio. Un tipo di ascolto sensibilizzato ai valori fonici e alle figure emergenti dal suono scova nella musicalità del parlare un risvolto pre-rappresentativo che giace nell’inconscio in condizione di latenza verbale. Da questo punto di vista il latente non è solo un’altra scena sotto quella manifesta, ma anche tutto ciò che sta annidato nei suoni della voce a costituire l’ordito sonoro di un discorso a venire. Nell’area di un sensibile ascolto vengono svolte operazioni integrative di carattere musicale e viene conferita una logica di tipo pre-simbolico alla comunicazione non-verbale e infra-verbale del paziente.” (A. Di Benedetto, 2000).

Il peso energetico che noi poniamo nel metterci in contatto con qualcuno, per rivolgergli la parola, è tanto forte che, se non troviamo attenzione, la delusione che proviamo è tale da trasformarsi immediatamente in ira e rabbia. Segno che il bisogno dell’ascolto è veramente fortissimo.

Troppi parlano e troppo pochi ascoltano,e proprio per questo motivo “aumenta sempre di più il bisogno di essere ascoltati, di manifestare con la voce la nostra soggettività, il nostro essere al mondo” (G.Giuliani, 1990).

Il filosofo Jean-Luc Nancy sottolinea che nell’ascolto “il suono e il senso si mescolano e risuonano l’uno nell’altro o l’uno attraverso l’altro” (2004). In altre parole, la caratteristica principale di ogni evento sonoro, e quindi anche della voce, è quella di racchiudere tutto il proprio senso esattamente nell’“attualità superficiale dell’ascolto, ovvero nella fenomenalità dell’apparenza sensibile”. Nell’ascolto “balza alla massima evidenza […] un’altra modalità del ‘con-essere’: dell’essere insieme, intrecciati in infinite onde relazionali.” Nancy sottolinea come il sentire è sempre un ri-sentire, cioè un sentir-si-sentire, e conia la suggestiva immagine del diapason-soggetto: “l’ascolto genera una singolare modalità di apertura del e nel corpo di chi ascolta, giacché il suono, risuonando attorno a questi, contemporaneamente risuona in lui, entra e dilata il suo corpo, mettendolo al di fuori di se stesso. […] Essere all’ascolto è essere allo stesso tempo fuori e dentro, […] consisterà sempre in un esser-teso-verso, oppure in un accesso a sé”. Si potrebbe dire, con la psicologia transpersonale o prima ancora con Gurdjeff, che l’ascolto possa aiutare a sviluppare “il testimone”, ovvero la “doppia attenzione” indispensabile al “ricordo di sé”, scopo di ogni pratica meditativa.

Anche in ambito psicoterapeutico negli ultimi anni si è dato sempre più valore a quelle attitudini ricettive, quali “attenzione fluttuante”, “réverie”, “empatia”, “controtransfert” più vicine al corpo e all’inconscio e meno influenzate dal Logos. Per Antonio Di Benedetto (2000) il terapeuta deve sviluppare “l’attenzione su un tipo di ascolto che, come quello musicale, solleciti la mente a retrocedere verso il corpo, nel quale si incarna sintomaticamente l’inconscio. Cortocircuitando momentaneamente il pensiero razionale, un ascolto sospeso tra suono e significato predispone a un primo contatto sensoriale-uditivo con l’inconscio somatizzato. […] Occorre fare appello a una naturale capacità di conoscenza sensitiva, chiamata “aisthesis” dagli antichi greci.”

Sottolinea inoltre “l’importanza di un’ ‘intelligenza senziente’ ai fini della comprensione di un’altra persona”, e ritiene che “possa essere di grande aiuto a tal fine la frequentazione delle opere d’arte, l’accostarsi, cioè a quei prodotti “estetici” che sono una delle manifestazioni più visibili della sensibilità estesica della sua utilizzazione quale organizzatore delle prime forme d’esperienza. L’oggetto estetico sembra essere l’incarnazione di quella che Bion ha ipotizzato alla base dei processi di mediazione tra sensorialità e pensiero. Tramite la visione di un artista possiamo vedere cose cui la nostra comune percezione non giunge. […] L’emozione estetica rigenera ‘messianicamente’ il nostro vedere. L’oggetto artistico sollecita un atteggiamento pre-riflessivo, sintonizzato con la visione dell’artista. […] Questo tipo di attenzione esteticamente orientata, consentendoci di andare al di la del già-udito, deI già-detto, del già-visto sostiene la curiosità di esplorare quanto vi è di piu specifico nella persona con cui abbiamo a che fare, acuisce la sensibilità a coglierne la ‘singolarità’. L’inaudito, il non-pensato, il non-detto, quella parte di esperienza psichica denominata spesso ‘ineffabile’, può essere in una certa misura afferrata grazie a una recettività estetica.”

Ritengo auspicabile che questo tipo di attenzione venga ricercata, coltivata e sempre più affinata anche dal counselor, così seguendo in fondo – la via aperta ed indicata da Carl Rogers, del quale riporto in chiusura alcuni pensieri:

“E’ stato grazie all’ascolto delle persone che ho imparato tutto ciò che so circa gli individui, la personalità, le relazioni interpersonali. Vi è un’altra soddisfazione peculiare nell’ascoltare realmente qualcuno, poiché al di là del messaggio immediato della persona, indipendentemente da quale esso sia, c’è l’universale. Dietro tutte le comunicazioni personali che realmente ascolto sembrano esserci delle ordinate leggi psicologiche, aspetti dello stesso ordine che troviamo nell’universo intenso come un tutto. Così, c’è al tempo stesso la soddisfazione di ascoltare questa persona e la soddisfazione di sentirsi in contatto con ciò che è universalmente vero.
Quando dico che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascoltare profondo. Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali, al significato personale e anche al significato che è sotteso all’intenzione cosciente di colui che parla. […] Così, ho imparato a chiedermi: posso sentire i suoni e percepire le forme del mondo interno di quest’altra persona? Può esservi in me una risonanza così profonda per ciò che egli dice al punto di intuire i significati che egli teme e tuttavia vorrebbe comunicare come fa con quelli che conosce? […] Molto spesso […] le parole portano un messaggio e il tono della voce ne porta un altro nettamente diverso. […] Quasi sempre, allorché la persona sente di essere stata profondamente ascoltata, i suoi occhi si inumidiscono. Penso che in un senso in certa misura realistico essa stia piangendo di gioia. E’ come se stesse dicendo «Grazie a Dio, qualcuno mi ha ascoltato. Qualcuno capisce cosa mi sta accadendo». In momenti simili mi è venuta talvolta la fantasia di un prigioniero che si trova in una cella sotterranea e che giorno dopo giorno trasmette con piccoli colpi il seguente messaggio in alfabeto Morse «Qualcuno mi sente? C’è qualcuno?». Finalmente un giorno ode alcuni deboli colpi che dicono «Sì». Con questa semplice risposta egli è sollevato dalla sua solitudine; è diventato nuovamente un essere umano. Ci sono moltissime persone che oggi vivono in celle private, persone che non lo lasciano trasparire in alcun modo all’esterno, persone che vanno ascoltate con acuta attenzione per udire i messaggi che provengono dalla loro cella […] Quando sono davvero ascoltato, sono anche capace di ripercepire il mio mondo in un modo nuovo e di proseguire. E’ sbalorditivo come certe cose che sembrano insolubili diventano solubili se qualcuno ci ascolta, come una confusione che sembra irrimediabile si trasforma in un flusso che scorre con relativa limpidezza. Ho apprezzato profondamente le volte in cui ho sperimentato questo ascolto sensibile, empatico, concentrato”. (C. Rogers, 1983).

L’articolo è tratto dal libro: “Voiceling. La voce che cura – Spunti per un counseling centrato sulla voce”, acquistabile qui:

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/32973/la-voce-che-cura/

Foto: Piero Della Francesca, “L’adorazione del ponte”  dal ciclo “Storia della Croce, Arezzo. Chiesa di S. Francesco-dettaglio delle ancelle.

David Rossato è visual e sound designer, counselor, compositore e musicista elettronico. Ha scritto musica per l’arte, il cinema, il teatro, reading poetici e rassegne di musica contemporanea. Dopo il conseguimento di un master triennale inizia ad occuparsi di Gestalt Counseling; successivamente si avvicina alla psicologia transpersonale e alle tecniche musicoterapeutiche, approdando quindi allo sciamanesimo transculturale, che pratica da anni tenendo regolarmente cerchi e seminari.

Per contatti: dvdrossato@gmail.com

Lo Yoga Ratna-il gioiello dello Yoga (Patrizia Martinelli)

propone un cammino per entrare dentro se stessi e potersi conoscere al di là degli specchi (quelli reali o anche quelli che ci rimandano le altre persone), aprirsi alla consapevolezza e scoprire il gioiello nascosto in ognuno per poter ridefinire la propria identità.

La maestra Gabriella Cella ha ideato questo metodo che si basa su una ricerca che pone al centro il simbolo, legato alle forme del corpo e del respiro con tutta la sua forza dirompente.

Il corpo si esprime in tante forme differenti, tante quanto l’universo ne può contenere e quante la mitologia e la simbologia più antica hanno manifestato, forme che hanno un riferimento reale oppure meramente fantastico, che esprimono modalità legate al femminile oppure al maschile.

Proprio osservandosi senza giudizio, nell’immobilità dell’asana, ascoltando il tipo di respirazione che si crea, percependo l’elemento e dunque il Raja Chakra che è influenzato, è possibile risvegliare il simbolo che agisce all’interno. Accogliere ciò che appare senza giudicare, vivere l’armonia e l’eleganza del gesto, lasciare affiorare sensazioni di piacere o di disagio senza sottrarsi, può far emergere parti di sé finora ignote e sperimentare la complessità dell’esistenza.

E altrettante possibilità ce le offre il respiro che ci porta all’interno ed è strumento di autoconoscenza. Con il pranayama impariamo esercizi che ci permettono di individuare il nostro stato energetico e che producono effetti benefici come farci superare stati emozionali intensi, trovare la calma e la concentrazione e che possono equilibrare, rilassare o energizzare a seconda di quello di cui abbiamo bisogno. Esercizi che hanno particolari caratteristiche simboliche oltre che azioni terapeutiche ed energetiche.

E non dimentichiamo che il respiro può diventare suono con i Mantra (che significa strumento per la mente): quando i dati sensoriali ed emotivi che ci raggiungono e ci coinvolgono, creano confusione al nostro interno e la mente riflette un’immagine distorta della realtà, la recita dei mantra può favorire il silenzio della mente e lo scorrere dell’energia vitale. Dedicandoci a questa pratica in una ricerca che ha bisogno di una guida attenta, è possibile sperimentare come sia possibile diventare un tutt’uno con questi suoni e realizzare di essere una cassa di risonanza dell’armonia universale. Con i Bija Mantra (Mantra seme) relati ai Maha Raja Chakra (che sono vibrazioni cosmiche concentrate nel microcosmo umano e rappresentano le tappe evolutive nel percorso realizzazione individuale) ci si riferisce a suoni che vanno ad amplificare la concentrazione su questi Centri di energia e sugli elementi ad essi correlati, per stimolarli.

Se si avverte la spinta a voler cambiare qualcosa di se stessi o della vita che si conduce, lo Yoga Ratna ci aiuta. Se in una determinata fase della vita si ha più bisogno di forza o di equilibrio, di fluidità o di fermezza, di abbandono oppure di stabilità, è possibile scegliere esercizi respiratori e mantra adatti alla situazione, così come posizioni di eroi ed eroine, di divinità, di animali, di elementi della natura in cui si evidenzi quella qualità che ci interessa potenziare.

La pratica di questo tipo di Yoga diviene uno strumento duttile e prezioso a disposizione di chi non voglia perdersi in vane acrobazie o effetti consolanti, ma intenda liberarsi dalle abitudini con cui è solito definirsi.

 

Patrizia Martinelli ha conosciuto lo Yoga all’inizio degli anni ‘80 e si è diplomata presso l’E.F.O.A. (European Federation of Oriental Arts) nel 1992 e presso la S.I.Y.R. (Scuola Insegnanti Yoga Ratna) nel 2003. E’ socia YANi (Associazione Nazionale Insegnanti Yoga). È appassionata alla ricerca in questo ambito ed a questo fine ha viaggiato in India , soggiornando in alcuni Ashram, e continua a seguire percorsi formativi e sentieri d ricerca. Vive a Lucca dove insegna Yoga da trenta anni presso l’associazione da lei fondata, il Centro Amrita. patrimartix@gmail.com   3293773096

Il potere dell’osservatore(Chiara Zagonel)

di Chiara Zagonel dott.ssa in matematica e fisica

Uno dei pilastri alla base della teoria quantistica è il cosiddetto principio di indeterminazione, formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Karl Heisenberg. L’implicazione più importante di tale principio è che l’osservatore non è distaccato dal sistema che osserva, anzi ne fa parte e lo condiziona solo per il fatto che interagisce con esso. Viene così a sfumare la rigida distinzione tra soggetto e oggetto che aveva contraddistinto la fisica fino a quel momento, e la realtà osservata perde ogni connotazione di oggettività. Infatti, essa risulta esistere solo in funzione di una misurazione e della modalità con cui tale misurazione viene effettuata.

Tale principio, che Einstein cercò ripetutamente di confutare senza riuscirvi, si è dimostrato perfettamente in linea con il resto della teoria quantistica ed è stato verificato sperimentalmente in modo indiscutibile. Uno tra i numerosi esempi in tal senso è dato dall’effetto Zenone quantistico, individuato nel 1977 dai due fisici indiani B. Misra e G. Sudarshan. In base a tale effetto, quando si osserva in modo continuo una particella che dovrebbe decadere in un certo intervallo di tempo, tale particella non lo fa. L’osservazione ripetuta impedisce alla particella di decadere ed essa da instabile diventa stabile, come è stato confermato sperimentalmente nel 1990. 

In base al principio di indeterminazione di Heisenberg si può affermare, quindi, che l’osservatore, quello che fa e come lo fa diventano centrali rispetto a tutto il resto, che ne risulta quasi un semplice corollario, una conseguenza, se non addirittura una proiezione dell’intenzione iniziale dell’osservatore. Sembra incredibile che quella che crediamo essere una realtà concreta, oggettiva e indipendente sia invece così strettamente collegata a noi, al punto tale da modificarsi in relazione a quello che facciamo. Eppure è così. 

Passando dal mondo microscopico delle particelle subatomiche a quello macroscopico e riportando tale principio a un livello personale, possiamo affermare che in ogni istante della nostra vita siamo gli artefici di quello che si manifesta e, consapevoli o no, siamo contemporaneamente la causa e l’effetto. È una nostra responsabilità personale il passaggio da ciò che potenzialmente potremmo essere o fare a quello che successivamente accade. Infatti, non è possibile considerarsi dei soggetti distaccati e ininfluenti sulla nostra realtà e in qualche modo vittime di quello che succede, come se fosse esterno ed indipendente da noi. 

Inoltre, bisogna tener presente che l’assunzione di responsabilità a cui il principio di indeterminazione ci richiama non riguarda solo noi ma anche chi ci sta attorno. Di fatto, il modo con cui osserviamo gli altri influisce su di loro. Tutto ciò risulta particolarmente importante se riportato all’interno della relazione con l’altro, soprattutto in campo educativo o terapeutico, dove l’atteggiamento e l’intenzione dell’operatore influisce e determina la risposta di chi ha davanti. È essenziale ricordarsi che, analogamente alle onde elettromagnetiche, ci comportiamo in maniera diversa se sappiamo di essere osservati e rispondiamo a seconda di come viene fatta l’osservazione. Pertanto, guardare a un paziente come un soggetto in un processo di guarigione piuttosto che come una persona malata, o alla vivacità di un bambino come un indice della sua vitalità invece che un fattore di disturbo fa davvero la differenza.

Chiara Zagonel

Chiara Zagonel: dott.ssa in matematica e fisica, ha tradotto Quantum Mind di A. Mindell e ha scritto Storia dei quanti (2019) e Metafore quantistiche (2020). Tiene conferenze e seminari sulla fisica quantistica. 

www.chiarazagonel.it       Fb: Chiara Zagonel

La sacralità del Suono e della Voce

la sacralità del suono, si può ritrovare  in numerose culture e tradizioni, in ogni angolo del mondo. I sufi, attribuiscono al suono qualità divine, e ascoltando alcuni loro canti o musiche, si intuisce ben presto l’importanza degli armonici. In questi canti, la voce, viene “spinta” e fatta risuonare nella testa. Ne scaturisce un suono molto alto, che a volte perde i connotati di voce umana per trasformarsi in morbide sonorità flautate che trasportano il messaggio mistico agli iniziati.

Nel monastero sul monte Athos i monaci ortodossi (padri dioratici) intonano da tempo immemore, canti ricchi di armonici con una tessiture e sonorità molto simili al canto gregoriano, la bellezza degli armonici contenuti in questo  canto risuona nelle cattedrali del vecchio continente,  viene eseguito all’unisono dai monaci cantori creando così armonici naturali che accompagnano, come una sorta di melodia fantasma, tutto il canto. con il passare del tempo viene elaborato e cantato a due voci: quella principale esegue la melodia base mentre un’altra accompagna, passo dopo passo, armonizzando con diversi intervalli.  

Nelle steppe, nei boschi e tra le montagne della  Mongolia, Tuva e Siberia gli overtones trovano la loro più alta realizzazione nella tecnica di canto chiamata hoomi (choomig, xoomij) o “canto di gola”, che  prevede una emissione con due differenti suoni di altezza diversa. Uno di questi è il suono nasale-alto che corrisponde alla fondamentale, il secondo è una nota penetrante e tagliente (una sorta di fischio) che forma una melodia al di sopra della fondamentale. Hamel ci offre una efficace descrizione di come un cantante mongolo possa emettere due o più contemporaneamente :

“egli intona una nota nasale di media altezza, mentre aprendo e chiudendo la bocca, modifica il volume della cavità orale stessa, così facendo varia lo spettro armonico di queste lunghe note. All’improvviso nel punto più alto dell’emissione una melodia cristallina ne scaturisce…..”.

Da questo si evince  come i più abili cantori siano ritenuti in possesso di speciali facoltà, tra le quali quella di comunicare con gli spiriti. Ancora non si conosce la ragione profonda di questo tipo di canto ma, come spiega l’etnomusicologo Ted Levin ( Tuva : Voci dall’Asia centrale), è sicuramente correlato al rapporto dell’uomo con la natura :

“anche oggigiorno il canto di gola è strettamente connesso al rapporto con la natura, e sembra rispondere all’esigenza dell’uomo di esprimere il suo sentimento nei confronti della bellezza della natura. I pastori solitari che conducono le greggi nella steppa, non cantano per gli altri, ma per se stessi, per l’erba, le montagne , il vento, il cielo, la bellezza che li circonda.”

Ritroviamo questi aspetti e questo tipo di canto anche nella tradizione sciamanica dei buriati, popolazione nomade di Tuva (regione della Mongolia occidentale), questo ci è stato confermato parlando con una psichiatra che attualmente lavora presso luna struttura ospedaliera locale  : oggi lo sciamanesimo è praticato liberamente; esiste perfino una clinica sciamanica dove farsi visitare e curare con gli antichi metodi locali. La stessa dottoressa ci ha confermato di avere seguito alcuni casi di guarigione, operata da sciamani, che risultano a tutt’oggi di difficile interpretazione da parte della medicina ufficiale.

L’uso degli armonici nei riti sciamanici è praticato in un vasto numero di regioni al di fuori della Mongolia e dell’Asia , da quella degli eskimo dell’Alaska a quella dei boscimani africani. Anche i maya possedevano una tradizione simile  basata sull’uso del suono e degli armonici ottenuti con strumenti o con la voce, con l’intento di creare energia luminosa ed  evocare così energie spirituali. Gli aborigeni australiani utilizzano per le loro cerimonie tribali uno strumento a fiato che produce una notevole quantità di armonici, il didgeridoo.

Questo strumento è ricavato da rami di eucalipto il cui interno è stato svuotato e “lavorato” dalle termiti. Il didgeridoo produce una nota fondamentale molto bassa, correlata da una serie di overtones molto distinti (il suono prodotto è molto simile a quello delle voci dei monaci tibetani, di cui parleremo più avanti). Lo strumento è suonato soffiando vigorosamente alla sua imboccatura e sfruttando la vibrazione delle labbra ; per essere correttamente suonato richiede la padronanza della respirazione circolare : una tecnica che permette di tenere in “tensione” il suono dello strumento mentre allo stesso tempo si inspira. La tecnica qui descritta ci introduce all’importanza della respirazione nelle cerimonie di tipo tribale/rituale. Gli aborigeni australiani credono che prima dell’apparire dell’uomo sulla terra esistesse una razza di esseri sovrannaturali chiamati Wandijna, facenti parte della razza del “tempo dei sogno” , responsabile della creazione di tutte le forme ed esseri del pianeta. Quando l’uomo fu creato questa “super razza” se ne andò lasciando in regalo agli aborigeni il didgeridoo. Quando questo strumento suona crea un campo sonico ed apre una finestra interdimensionale che permette a queste popolazioni tribali di mettersi in contatto con i Wandijna.

Pare accertato che questo strumento oltre ad essere utilizzato per o riti tribali, venga impiegato in cerimonie di guarigione. La persona ammalata si distende a terra mentre il guaritore soffiando nel didgeridoo ed invocando gli spiriti, fa risuonare la parte malata del paziente e ne provoca la guarigione.  A questo proposito Jim Edward[1] “si ritiene il suono del didgeridoo nei rituali del mattino capace di rendere confortevole il viaggio del defunto  verso la terra dei morti. Le persone cantano per un viaggio sicuro, senza pericoli per l’anima, questo contribuisce a creare uno stato di calma tra i presenti alla cerimonia. Esistono specifiche musiche,  canzoni, suoni, che vengono tramandati di generazione in generazione ed utilizzati nel tempo per questo scopo specifico. Spesso sono gli stessi spiriti che inviano allo sciamano le parole o i suoni da utilizzare; ai non iniziati queste formule possono apparire  sequenze senza senso, che assumono tuttavia la loro forza quando utilizzati nelle cerimonie. Un esempio di ciò lo troviamo presso i nativi americani. Come dice

Joseph Rael ( Freccia Dipinta) “molti di questi suoni li ho imparati, altri è la medicina stessa che me li insegna”.

Il rituale collettivo di guarigione costituisce l’avvenimento centrale nella vita culturale e spirituale dei boscimani, non a caso lo si può considerare il simbolo di questa società che è regolata in base allo stato di salute dei suoi componenti costretti a vivere in condizioni estreme. La figura centrale è lo sciamano,che  attraverso i suoi poteri allontana la morte o la malattie che minacciano  i singoli gruppi familiari.

I boscimani amano la musica, il canto e la danza. Il loro principale strumento musicale è una sorta di arco, che tengono premuto contro la bocca : la corda viene pizzicata ripetutamente, e la tonalità delle note è modificata dall’ampiezza della cavità orale (questo tipo di tecnica è utilizzata anche dalle popolazioni dell’Asia centrale per ottenere, con la voce, i diversi armonici) . Nelle cerimonie dei boscimani, le donne siedono intorno ad un grande fuoco, intonano canzoni purificatrici e battono le mani seguendo un ritmo intervallato e penetrante, che fa da contrappunto alla cadenza delle loro voci. Gli uomini girano lentamente attorno e dietro alle donne emettendo suoni gutturali. La danza gradualmente accelera, i canti si fanno più alti, l’atmosfera più intensa. Lo sciamano  che guida la cerimonia, salta dentro il cerchio delle donne agitandosi e gridando, si dirige verso il fuoco tentando di gettarvisi, ma viene trattenuto dalle donne che spengono con le mani i suoi capelli brucianti e lo stendono per terra dove egli giace in stato di trance, quando si rialza tocca ad una ad una le donne per scacciare gli spiriti maligni, emettendo di volta in volta un suono ben preciso. Il rituale prosegue per tutta la notte, scandito dal suono delle voci e dalla ritmica degli strumenti ad arco ( i boscimani non utilizzano tamburi ) fino all’alba, quando tutti i partecipanti cadono in un sonno profondo.

Bisogna risalire al 1400 circa per comprendere il tradizionale canto dei monaci tibetani dei monasteri di Gyuto e Gyume. Si narra che una notte il lama Je Tzong Sherab Senge udì in sogno un suono mai udito prima, era una voce incredibilmente bassa e profonda che suonava quasi come il ringhiare di un animale e aveva ben poco di umano. Alla prima voce si univa contemporaneamente una seconda voce cristallina e pura, dalle tonalità alte. Nel sogno il lama Je Tzong si accorse di essere egli stesso ad emettere quello strano suono. Venne inoltre istruito su come utilizzare questo tipo di canto, che univa entrambi gli aspetti dell’essere umano, quello maschile e quello femminile, un canto tantrico che in esso racchiudeva l’essenza stessa dell’universo. Il giorno dopo cominciò a recitare le preghiere seguendo questa tecnica. Cinquecento anni dopo, nei monasteri di Gyuto e Gyume (Lhasa) i monaci continuano a recitare i mantra con la stessa tecnica, che apprendono appena novizi e che viene tramandata per via esclusivamente orale. Questa tecnica permette a ciascun monaco di emettere più suoni contemporaneamente creando una sorta di accordo.

Ascoltare questo tipo di canto è veramente un’esperienza fuori dal comune come ci riporta il Dott. Huston Smith nel suo film: Requiem for a Faith:” questi monaci, riescono ad utilizzare la cavità orale in modo da enfatizzare gli armonici che si delineano chiaramente fino a formare una melodia al di sopra della nota fondamentale. Il significato di questo sta nel focalizzare l’attenzione al sacro dall’esterno all’interno, di udire ciò che non è udibile” .I musicologi hanno successivamente determinato che la nota bassa (fondamentale) è due ottave più bassa di un DO (centrale) e vibra alla velocità di 75.5 cicli al secondo, Questo tipo di canto favorisce, in chi lo pratica, la sensazione di una fusione/unione con l’universo e con le sue forze creatrici,  secondo Terry Jay Ellingson[2]: “vi sono diversi motivi che si celano dietro a questa misteriosa vocalità: quello di celare il significato delle parole ai non iniziati, di  trasformare le parole nel suono omogeneo del sacro Om, ed infine di  stimolare i chakras. E’ difficile identificare il profondo  significato di questo tipo di canto, di sicuro l’uso di una respirazione “specializzata”, il risuonare delle cavità della testa, e l’approccio meditativo/reverenziale ne fanno uno strumento estremamente potente ed utilizzabile anche a scopo terapeutico (anche come solo ascolto). Interessante è notare la qualità e la somiglianza del suono prodotto con quello emesso dal didgeridoo degli aborigeni australiani.

Per gli indù è fondamentale il canto dei suoni sacri, (OM AHUM) e quello dei mantra (come OM MANI PADME HUM). Vengono intonati singolarmente, a scopo meditativo, oppure durante riti collettivi. È qui che il loro potere viene amplificato dal canto corale e dalla reiterazione, i partecipanti  prendono il respiro all’unisono e iniziano a cantare, mentre uno finisce, un altro  ricomincia creando un flusso continuo, una pulsazione sonora. Il suono corale crea così un ambiente fortemente mistico-spirituale e predispone a stati di coscienza più elevati.

Lorenzo Pierobon © 2021

 

[1] Jim Edward, All about didgeridoo

[2] Terry Jay Ellingson, The mandala of sound